Passeggiando per le antiche vie di Kyoto è possibile
visitare un altro sacrario militare, dopo il Santuario Yasukuni di Tokyo.
È ilRyozen Kannon, moderno luogo di culto buddhista dedicato ai caduti giapponesi
della seconda guerra mondiale e costruito nel 1955.
Situato ai piedi di un’enorme statua della dea Kannon,
il tempio ospita anche un memoriale dedicato ai caduti senza nome.
Tutti,
nessuno escluso, senza distinzione di nazionalità, o tra alleato o nemico.
Uno
dei tanti monumenti al milite ignoto sparsi per il mondo per commemorare quei
cadaveri senza nome, a cui cannoni e fucili rubarono non solo la vita, ma anche
l’identità.
Recita la lapide commemorativa della Memorial Hall: «Onore
a lui, amico o nemico, che lottò e morì per la sua nazione! Possa la tragedia
del suo supremo sacrificio portarci la vita; possa illuminarci e ispirare sempre più l’impegno nella ricerca della pace nel mondo e
della fratellanza universale».
Nella stanza a fianco due armadietti.
Il primo
contenente urne piene di terra e sabbia, per rappresentare i caduti senza nome.
Accanto ad ogni vaso una bandiera che indica la nazionalità a cui si fa
riferimento.
C’è anche l’urna a ricordo dei militari italiani, insieme a quella
tedesca, inglese, belga, canadese, americana, russa, pakistana, bengalese,
indiana, e tante altre.
Sempre nella stessa stanza c’è un altro armadietto, i
cui cassetti contengono i nomi di soldati o membri del personale civile degli
eserciti nemici morti nei territori che all’epoca erano sotto la giurisdizione
giapponese. Ed anche qui figurano americani in primis, accanto ad australiani,
inglesi, francesi, canadesi, olandesi. Negli ultimi cassetti in ordine di
numero, figurano italiani, cinesi norvegesi, indiani, danesi e neozelandesi.
Dunque, persino a coloro che a quel tempo erano
nemici, è dedicato uno spazio nel memoriale.
Fa riflettere vedere che, nello stesso luogo, soldati che settanta anni fa combattevano e si uccidevano tra loro
sono ricordati insieme, senza distinzioni, come fratelli divisi
solo dai colori della propria bandiera.
La prima cosa che viene da pensare è che questo sia un
modo per superare quegli odi che, in passato, hanno prodotto tante, troppe
morti e per ricordare al mondo che, al di là delle divisioni e delle ostilità
tra i governi, in ogni guerra sono i più deboli chi ci rimettono, che perdono,
che muoiono.
Siano essi civili coinvolti loro malgrado nelle ostilità o soldati, dietro la cui divisa si nascondono uomini, costretti a combattere, uccidere e morire per ragioni ignote alla gran
parte di loro.
Forse, tutti noi dovremmo pensare in quest’ottica al
passato, guardando con più obiettività la storia, senza dimenticare mai le
ragioni che hanno portato alla tragedia della seconda guerra mondiale e,
soprattutto, della guerra civile scoppiata in Italia, ancor più brutale in
quanto ad uccidersi erano fratelli, connazionali, divisi solo da una diversa
consapevolezza su quale fosse la strada che il Paese dovesse seguire.
Ancora oggi non sappiamo far altro che parlare tramite
sterili slogan, da entrambi i fronti. Perchè, da un lato, c’è chi pensa di
rivalutare forme di governo che erano vere dittature, dimenticando i crimini e sofferenze subite, la privazione
della libertà, giustificando leggi criminali che hanno condotto il Paese alla guerra e al disastro. Dall’altro, c’è chi non sa fare altro che vivere nel mito
dei buoni contro i malvagi, quasi fosse un film hollywoodiano, dove al posto
del coraggioso soldato americano senza macchia, in lotta contro il cattivo di turno, vi è il partigiano.
Non riuscendo
ad ammettere che errori, crimini, atrocità furono commessi anche dall’altra
parte, dai “buoni”. Come sempre accade in qualsiasi guerra, civile e
non (anche i liberatori alleati ne hanno compiute di scelleratezze).
O chi pensa che si debba addirittura cancellare ogni
traccia di un periodo storico negativo, abbattendone addirittura monumenti,
obelischi ormai innocui, che ormai non rappresentano più minacce alla democrazia, ma sono importanti testimonianze storiche di un tempo che, piaccia o meno, c’è stato.
Certo, fermi devono essere il riconoscimento del
merito verso chi ha lottato per costruire la democrazia in Italia e la condanna
di regimi totalitari e invasioni straniere che hanno provocato indicibili
sofferenze. Errori o crimini commessi da alcuni non devono gettar
discredito su un’intera lotta di liberazione.
Ma forse è utile ricordare che dall’altro lato c’era anche chi ha combattuto per senso del dovere verso lo Stato, o perchè
costretto o, ancora, chi ha dato la vita per un’idea che in seguito sarebbe stata condannata
dalla storia, ma che all’epoca si credeva funzionale al bene del Paese.
La
guerra, si sa, la scrivono i vincitori.
In ogni conflitto, l’esercito
vincente è destinato ad essere celebrato e glorificato, mentre agli
sconfitti è riservata una luce negativa, utile e necessaria a far sì che il
vincitore sia tale anche dal punto di vista culturale,
nell’immaginario collettivo.
Utile a creare un mito che ne rafforzi il potere conquistato e lo legittimi.
Oltre alla sconfitta militare, al perdente è
riservata quella storica e quella umana.
E forse, almeno nel breve periodo è anche normale e giusto che sia così.
Ma, ribadiamo, dietro alle divise, alle bandiere, ci sono soldati, semplici uomini che, per
costrizione, senso del dovere, ideologia, combattono e periscono.
Uomini che, magari sono anche animati dalle migliori intenzioni.
Lungi da noi, ovviamente, l’idea di rivalutare regimi totalitari o stati fantoccio al soldo di uno Stato invasore, dal momento che, come dice un famoso detto, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.
Ma forse è giunto il tempo di ricordare anche il sangue dei vinti, per usare l’espressione del giornalista Gianpaolo Pansa che, sul tema, ha scritto libri contestatissimi.
Sarebbe una grande prova di maturità da parte dell’intero Paese riconoscere dopo tanti anni che anche dietro il fascista o il tedesco morto c’erano un bambino cresciuto senza padre, una moglie rimasta sola, un genitore costretto a sopravvivere al proprio figlio.
Una famiglia che sperava nel suo ritorno a casa e che, invece, si è ritrovata a piangere davanti al cadavere (quando possibile)…