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Home » Il Ricordo/La miniera di Marcinelle e quel tributo di sangue pagato in cambio di diritti sul lavoro

Il Ricordo/La miniera di Marcinelle e quel tributo di sangue pagato in cambio di diritti sul lavoro

Sessanta anni fa in Belgio si consumava la tragedia. Non dimentichiamo per non vanificare le conquiste ottenute

Michele Cotugno by Michele Cotugno
27 Aprile 2016
in Cronaca
Il Ricordo/La miniera di Marcinelle e quel tributo di sangue pagato in cambio di diritti sul lavoro
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Primo Maggio.
Oggi l’Italia celebra la Festa del Lavoro, la giornata
dedicata ai diritti e alle conquiste dei lavoratori in campo economico e
sociale, ottenuti grazie all’impegno politico e sindacale. Conquiste che,
tuttavia, non sono venute da sé, ma hanno comportato dure lotte e in molti casi
hanno crudelmente richiesto sangue.

Casi come quello di Marcinelle, di cui il prossimo 8 agosto ricorre il
sessantesimo anniversario, per esempio.

Era il 1956. Nella cittadina belga di Charleroi, oggi nota per la
presenza di un aeroporto utile per raggiungere la capitale Bruxelles, era
attiva la miniera di carbone Bois Du Cazier, nella frazione di Marcinelle. Una
miniera vetusta, attiva dal 1830, con scarse misure di sicurezza che, la
mattina dell’8 agosto, sarebbe diventata una trappola mortale per 262
lavoratori. 262 persone, di nazionalità diverse, ma tutte accomunate dal
patimento della fame, più forte della paura di scendere in quei cunicoli
stretti e bui, a contatto con gas velenosi, spinti dal desiderio di un futuro
migliore per sé e per le proprie famiglie.

Novantacinque erano cittadini autoctoni, otto polacchi, sei greci, cinque tedeschi,
tre ungheresi, altri tre algerini, due francesi, un britannico, un russo, un
ucraino e un olandese. I restanti 136, la metà, erano italiani, di cui una
ventina i pugliesi, partiti per il Belgio in seguito all’accordo italo-belga
del ’46, che prevedeva l’invio di 50mila lavoratori, per lavorare nelle miniere
di carbone. In cambio l’Italia, che soffriva la scarsità di materie prime,
avrebbe avuto ingenti quantitativi di carbone, all’epoca principale fonte
energetica.

Migliaia di italiani emigrarono dunque in un paese straniero, per
fuggire dalla miseria, con la promessa di una paga dignitosa che potesse
garantire una vita normale.
Non sapevano, tuttavia, che il mestiere che
sarebbero andati a svolgere di dignitoso aveva ben poco. A cominciare dagli
alloggi, gli stessi dove pochi anni prima erano sistemati i prigionieri di
guerra. Le dure condizioni di lavoro e il pagamento a cottimo, che incentivava
i minatori a fare turni massacranti per aumentare la paga, provando fino allo
stremo il proprio fisico, sarebbero sicuramente stati tra le cause dell’errore
umano che causò la tragedia di Marcinelle.
Il carbone era più importante del
benessere degli uomini.

Ne descrisse la tragedia il giornalista Dino Buzzati, sul “Corriere
della Sera”
del 9 agosto 1956, con un articolo dal titolo “Tragedia
nostra
“.

«È come se fosse sprofondato un intero paese con i suoi abitanti»
scrisse, riportando lo strazio dei parenti dei minatori, accalcatisi ai
cancelli del complesso industriale, che di ora in ora vedevano affievolirsi le
speranza di rivedere in vita i propri cari: «È come se un terremoto, o
un’esplosione, o una bufera avesse raso al suolo un centro abitato qui da noi.
Peggio. Perché i grandi disastri si compiono di solito in brevi istanti, al
massimo in pochi minuti. E per quanto sia atroce il colpo, almeno lo si sa
immediatamente. Mentre le tragedie minerarie hanno questo di terribile: che si
compiono con insopportabile lentezza: i crolli, gli scoppi, gli incendi, giù
nelle viscere della terra fanno vittime fra quelli più vicini, però la
maggioranza resta viva e, se le vie di scambio sono chiuse, vede avvicinarsi la
morte a poco a poco: ore e ore, giornate intere di agonia (di paragonabile c’è
soltanto la sorte dei sommergibili affondati, i cui uomini, rimasti illesi,
sentono di minuto in minuto trasformarsi lo scafo in una bara)
».

Quei minatori, «partiti dall’Italia per farsi una minuscola
faticatissima fortuna e imprigionati per l’eternità dalla terra straniera che
doveva dar loro, a costo di incredibili calvari, un modestissimo avvenire
», non
ebbero nemmeno giustizia post mortem. La società Bois du Cazier fu condannata
solo a risarcire gli eredi delle due vittime che non erano loro dipendenti. Nessuna
responsabilità penale, se non per il direttore della miniera.

La miniera, dopo
la tragedia, ricominciò a funzionare per altri dieci anni, fino al 1967, quando
l’attività mineraria fu colpita dalla crisi del carbone, che già da anni si
stava sostituendo con altre fonti energetiche, come il petrolio.

Oggi il
complesso industriale, ricostruito dopo un trentennale abbandono, ospita un
memoriale per le vittime e un museo dell’industria ed è patrimonio storico dell’Unesco.

Ai turisti che vanno in Belgio è consigliata una visita, per comprendere un capitolo della nostra storia, di quella dei nostri padri, nonni e di quanto hanno sofferto per garantirci quel che spesso diamo per scontato.

La catastrofe segnò la fine dell’immigrazione italiana
verso il Belgio e servì (mi si perdoni l’utilizzo del verbo “servire” riferito
alla morte di 262 persone) ad introdurre leggi più severe in materia di
sicurezza di lavoro, grazie alle quali oggi abbiamo molti più diritti rispetto
al passato. Conquiste che dobbiamo tenerci strette, affinché l’economia
riconosca che dietro un lavoratore non ci sono solo due braccia, non c’è solo
la forza lavoro utile a creare profitto, ma c’è un essere umano. 

Questo deve essere lo
spirito del 1 maggio.

 

 

Tags: dirittilavoromarcinellePrimo Maggiotragedia
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