“Le gioie e le speranze, le tristezze e
le angosce dei bitontini di oggi,sono pure le gioie e le speranze dei suoi
cronisti e non vi è nulla di genuinamente umano che non trovi eco nel loro
cuore e sul loro taccuino“. E’ stato questo l’augurio
di buon lavoro che, parafrasando l’inizio della costituzione conciliare “Gaudium
et spes”, ho rivolto non molti giorni fa ai colleghi della
redazione di www.dabitonto.com che mi avevano invitato
al “battesimo” della loro nuova avventura giornalistica.
E aggiungevo: “Siate esploratori del
mistero della città, sollevando i veli che ogni potere usa per opprimere
l’uomo, non solo il potere politico ed economico, ma anche il potere della
paura, dell’indifferenza, della povertà“.
La recente cronaca della nostra città, con il suicidio dell’artigiano-marmista
Carmine Mancazzo, si è incaricata di dare drammatica conferma a quelle parole. La
tragedia di questo uomo solo, il gesto estremo della disperazione che da tempo
abitava la sua mente e il suo cuore, sono finiti sui taccuini dei nostri
giovani cronisti.
Ma in questa triste storia c’è anche un altro aspetto che mi ha particolarmente
toccato, un piccolo-grande dramma nel dramma. E’ quello del podista che correva
per una strada della nostra campagna dove ha incontrato il volto di un altro
uomo che portava evidenti i segni della disperazione.
Come nella parabola evangelica del buon samaritano, anche il podista passando
accanto a quell’uomo stravolto “lo
vide e ne ebbe compassione“. Fermando la sua corsa l’atleta-samaritano
ha provato a dare coraggio a quel suo fratello in umanità che la vita aveva
messo sulla sua strada. Quelle parole non sono bastate a distogliere dal suo
proposito chi aveva deciso di farla finita e hanno aperto una ferita anche
nell’animo del podista. Quante domande hanno attraversato il suo cuore dopo
aver saputo della tragedia.
“Se fossi rimasto più tempo con lui– avrà pensato il podista – se avessi
trovato le parole giuste per toccargli cuore, forse sarei riuscito a salvarlo“.
Intanto però lui aveva “visto” quell’uomo solo e ne aveva avuto
compassione aveva cioè provato a patire con lui, sia pure per qualche momento.
Nella stessa parabola si parla anche di un “sacerdote che scendeva per quella medesima strada e quando lo vide
passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e
passò oltre“. Ecco, oltre che sul podista-samaritano che si è fermato
per rincuorare quell’uomo solo che si aggirava per la campagna, bisogna
riflettere anche sui tanti sacerdoti e sui tanti leviti che anche a Bitonto
forse sono passati oltre la vita di Carmine Mancazzo al punto da fargli
scrivere sul biglietto d’addio: tutti mi hanno abbandonato.
Ecco quei “veli della paura,
dell’indifferenza e della povertà” che opprimono tanti uomini e tante
donne anche accanto a noi. Come ha già scritto l’amico e collega Sabino
Paparella sulle colonne di Bitontotv è che abbiamo perso la capacità di
ascoltare. Non sappiamo prestare ascolto al nostro prossimo che soffre e geme,
magari in silenzio. Che per un’antica dignità non ha la forza di bussare, di chiedere e
si rinchiude in silenzio dignitoso, ma dagli esiti, spesso, tragici. E se il
nostro prossimo bussa, sappiamo aprire, ascoltare, fermarci, siamo capaci di
concreti gesti di solidarietà?
Sarà il risultato dei troppi stimoli,
delle troppe sollecitazioni, del rumore in cui siamo immersi, della valanga di
informazioni, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti: viviamo in una
società che soffre di un deficit di attenzione.
Il simbolo dei nostri tempi sono gli
auricolari, terminali tentacolari di cellulari o iPod, con i quali selezioniamo
gli unici “rumori” che siamo disposti ad ascoltare. E in questa società
“parlante” stiamo rapidamente perdendo la nostra capacità di ascoltare le
persone e il mondo intorno a noi.
Questo, forse, è il senso di questa “parabola” bitontina del nostro
tempo. Tornare ad imparare ad ascoltare, a condividere, a riconoscere e leggere
i volti dei nostri fratelli in umanità. Ne saremo capaci?