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Home » Due giorni di commemorazioni per il centenario della tragedia di Caporetto

Due giorni di commemorazioni per il centenario della tragedia di Caporetto

Stefano Milillo: "Non siamo qui per celebrare la guerra, ma per ricordare i caduti"

Michele Cotugno by Michele Cotugno
6 Novembre 2017
in Cronaca
Due giorni di commemorazioni per il centenario della tragedia di Caporetto
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La giornata nazionale delle forze armate, che ricade nell’anniversario della fine della prima guerra mondiale (99 anni fa), è coincisa quest’anno con il centenario di quella che fu una delle più grandi tragedie di quel conflitto e una delle più grandi disfatte dell’esercito italiano: Caporetto.

Per l’occasione il Centro Ricerche Storia e Arte Bitonto, il Comitato “Bitonto onora i suoi caduti”, l’associazione musicale culturale “Davide delle Cese” e l’associazione “Vox Media”, hanno voluto rendere omaggio i caduti di quella guerra, ma anche di tutti gli altri conflitti, con due giorni di commemorazioni

Sabato scorso, nella chiesa di San Giorgio Martire si è tenuto l’incontro “Echi di guerra: musiche e parole da Caporetto”, con letture di testi sulla Grande Guerra e musiche dell’epoca, ad opera dell’orchestra di fiati “Davide Delle Cese” diretta da Vito Vittorio De Santis, con la voce solista di Michelangelo Aresta, e del coro di voci bianche della Scuola Comunale di Musica “Filippo Cortese” di Giovinazzo, diretto da Teresa Tassiello.

Un evento per ricordare tutti i soldati che persero la vita non solo tra le fila italiane, ma anche tra quelle nemiche, come ricorda il giornalista Domenico Schiraldi, esponente del Centro Ricerche: «Fu una delle più grandi disfatte, ma in realtà ogni guerra è una disfatta. E anche se si è combattuta nell’Italia settentrionale, è molto più vicina di quel che pensiamo, dato che sono circa 400 i bitontini che dal fronte non sono più tornati».

«Strano che maggior senso di unità nazionale possa nascere da un’esperienza drammatica come la guerra, ma forse è proprio la tragedia e la sofferenza che ha spinto a sentirsi tutti fratelli giovani che non si erano mai allontanati dalla propria regione. In momenti come questi, in cui facciamo memoria, ritroviamo quel senso di unità, perché, come ha detto anche il presidente della repubblica, ricordare i caduti è un dovere civico e morale» è il commento di Rosa Calò, intervenuta in rappresentanza dell’amministrazione comunale.

Spazio anche alle testimonianze indirette di soldati dal fronte, con il racconto di Luigi Lauta sul suo omonimo nonno, trovatosi a soli 20 anni sul fronte insieme ad un altro bitontino, Nicola Natilla, che lo soccorse mentre giaceva ferito tra «cadaveri, feriti che urlavano e brandelli di carne», salvandogli la vita.

«Non siamo qui a celebrare la guerra. Le guerre non si celebrano ma si condannano» sottolinea Stefano Milillo, presidente del Centro Ricerche, ricordando, invece, che è un rendere omaggio ai tanti caduti.

Domenica, invece, le commemorazioni sono continuate al cimitero, davanti al mausoleo dei caduti della Grande Guerra che accoglie i resti mortali di alcuni tra i soldati che vi parteciparono.

«Ricordiamo i morti di quell’inutile strage, ma anche i feriti e tutte quelle mogli, figli a cui venne comunicato che il loro caro era morto in guerra. Non sono feriti anche loro?» ammonisce don Vito Piccinonna.

A rendere omaggio ai tanti, troppi giovani caduti anche l’assessore Marianna Legista e il generale di brigata Pietro Primo: «Molti giovani sono caduti senza neanche sapere il perché, ma sapendo di essere italiani. Dobbiamo ricordare quanto da loro è stato fatto. È nostro dovere tramandarne la memoria e i valori nei giovani attuali. Spesso ci dimentichiamo quel che vuol dire “patria”. Vuol dire “noi”».

Ad impreziosire la giornata il monito finale di Emanuele Coviello, 93enne reduce dai campi di concentramento tedeschi, nella seconda guerra mondiale, che ha raccontato la sua drammatica esperienza, quando fu «strappato come un agnello dalla madre, per andare a soffrire in quella maledetta Germania di allora, dove non ci davano solo il pane da mangiare. Neanche le patate, perché servivano più ai tedeschi».

«Maledico i costruttori di bombe atomiche. Cosa ce ne facciamo di queste armi?» è l’appello finale del reduce.

 

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