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Home » Cinquanta anni fa, l’attentato di Fiumicino. La nostra intervista al sopravvissuto bitontino Francesco Lillo

Cinquanta anni fa, l’attentato di Fiumicino. La nostra intervista al sopravvissuto bitontino Francesco Lillo

L'ex poliziotto fu sequestrato e tenuto in ostaggio nell'aereo Lufthansa dirottato fino in Kuwait

Michele Cotugno by Michele Cotugno
10 Dicembre 2023
in Cronaca
Cinquanta anni fa, l’attentato di Fiumicino. La nostra intervista al sopravvissuto bitontino Francesco Lillo
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«Ore 12.40. Facevamo servizio antiterrorismo nell’ala ovest dell’aeroporto di Fiumicino. Sentimmo due esplosioni provenire dall’aereo Pan Am. C’era tanto fumo. All’improvviso, alcuni uomini sono venuti da noi, armati di fucili mitragliatori, al cui confronto le nostre pistole calibro 9 erano giocattoli. Riuscii a disarmarne uno, essendo un buon lottatore e conoscendo le arti marziali. Mentre chiedevo disperatamente aiuto, un altro terrorista, da dietro, mi stordì colpendomi alla nuca con il calcio del fucile».

È passato mezzo secolo da quel maledetto lunedì 17 dicembre 1973. Ma quei momenti sono ancora indelebili nella memoria di Francesco Lillo, ex poliziotto di Bitonto che, 50 anni fa, fu tra i sopravvissuti del più sanguinoso attentato consumato su suolo italiano fino ad allora (superato solo, il 2 agosto 1980, dagli 85 morti della strage alla stazione di Bologna). Morirono in 32 (sei gli italiani), tra gli ostaggi assassinati, le vittime della sparatoria e i passeggeri di quel Boeing 707 della Pan Am, carbonizzati dalle bombe al fosforo lanciate all’interno. A metterlo in atto, un commando di terroristi palestinesi.

Lillo, all’epoca 22enne, era tra i poliziotti che, sotto la minaccia delle armi, furono costretti a salire su un aereo Lufthansa successivamente dirottato. Con lui gli agenti Salvatore Fortuna, Vincenzo Tomaselli, Andrea Diliberto, Mario Muggianu e Ciro Strino, piloti e tre hostess della compagnia tedesca e, infine, l’operatore aeroportuale Domenico Ippoliti, che finì tragicamente il viaggio ad Atene, ucciso dai terroristi.

Abbiamo incontrato Lillo insieme alla giornalista Michela Chimenti che, sulla vicenda, ha realizzato il podcast “Una mattina a Fiumicino”, per la piattaforma Storytel. Oggi è in pensione, nella sua casa nell’agro di Noci, ma i ricordi di quei momenti terribili non lo hanno mai abbandonato. Specialmente quelli più tragici, come l’uccisione, davanti ai suoi occhi, del finanziere di 20 anni Antonio Zara, il cui corpo è ripreso nella fotografia più iconica di quella tragedia: «Fui l’ultimo a salire in aereo. Dopo di me c’era Zara. Mentre io fui tirato con forza nel velivolo, a lui abbassarono il giubbotto per bloccargli le braccia, lo fecero girare e lo uccisero con una mitragliata alla schiena».

L’aereo partì, dunque, per un viaggio da incubo. «Siamo stati maltrattati per tutto il volo da gente strafatta di droga» racconta Lillo, sottolineando come i dirottatori, per reggere la tensione, assumessero stupefacenti che li rendevano estremamente violenti: «Non potevamo fare nulla. Neanche parlare o comunicare a gesti. Fummo sempre ammanettati e alcuni avevano le manette talmente strette che le mani divennero gonfie e nere. Ci picchiavano e ci minacciavano costantemente. A darci una mano, fortunatamente, il comandante e le hostess, persone squisite che, sottovoce, ci aggiornavano di quanto succedeva. Proposi ai colleghi di liberarci e attaccare, ma in loro prevalse la paura».

Il volo si diresse verso sud, sorvolò l’aeroporto militare di Galatina e di lì verso Atene, dove il commando rilasciò Ciro Strino, ferito a Roma, e chiese, invano, la liberazione di miliziani palestinesi rinchiusi in Grecia. Fu ad Atene che fu assassinato Ippoliti, il cui corpo cadde sotto le ruote dell’aereo, schiacciato durante la ripartenza verso est: «Il governo greco propose di inviare i suoi soldati a bordo dell’aereo, armati di gas narcotizzante, per addormentare gli occupanti e arrestare i terroristi, ma da Roma fu posto il veto sull’operazione».

«Fortunatamente, a proteggere l’aereo, intervennero quattro cacciabombardieri tedeschi che iniziarono a seguirci» ricorda con rabbia Lillo, non nascondendo la sua delusione per il comportamento delle autorità italiane: «Se siamo salvi lo dobbiamo alla Germania, che ha fatto tanto per noi. Non all’Italia».

Era, infatti, in vigore, il “Lodo Moro”, tacito accordo tra Roma e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, per evitare attentati su suolo italiano e ottenere approvvigionamenti necessari dopo la crisi petrolifera, in cambio di una sorta di lasciapassare ai miliziani mediorientali. Ma l’accordo non coinvolgeva le tante altre sigle della complessa galassia palestinese, spesso in lotta tra loro.

Le autorità di Libano, Cipro e Siria negarono l’atterraggio e, dopo diverse ore, l’incubo finì in Kuwait, dove gli ostaggi furono liberati e i dirottatori furono arrestati, salvo essere poi scarcerati, per far perdere definitivamente le tracce. L’Italia non ne ha mai chiesto la consegna.

«Ci caricarono in un cellulare chiuso e buio e ci portarono all’hotel Hilton. Ad accoglierci furono funzionari dell’ambasciata tedesca. Da Roma si preoccuparono solamente di dirci di non parlare con nessuno. Il giorno seguente, quando vennero a prenderci per portarci in aeroporto, sembrava che fossimo noi i delinquenti. Nessuno ci chiese come stessimo, se avessimo bisogno di qualcosa. E anche in Italia, l’unico che si interessò a noi fu Aldo Moro».

In patria, Lillo fu ricoverato al Policlinico Militare di Roma “Celio”. Per quel colpo di fucile in testa gli riscontrarono una contusione occipitale cervicale che, ancora oggi, in base alle condizioni meteo, si fa sentire. Tornò a casa in tempo per il 25 dicembre: «Quel Natale lo trascorsi con tanta armonia, perché sapevo che avrei potuto non esserci più. Ad accogliermi, a Bitonto, vennero in tanti, tra parenti e amici. Vennero il sindaco Domenico Larovere e il vescovo Aurelio Marena».

Dopo mezzo secolo, i ricordi sono ancora tanti e dolorosi. Ma a far male sono più che altro le domande rimaste senza risposta: «I servizi segreti israeliani avevano già comunicato che ci sarebbe stato un attentato su suolo italiano. Perché nessuno si attivò? Danno medaglie e riconoscimenti a tanta gente. Perché in tanti anni, noi sopravvissuti di Fiumicino siamo stati dimenticati?».

Dell’attentato, infatti, in 50 anni si è quasi persa la memoria. La ragion di stato ha condannato all’oblio quelle 32 vittime, i loro familiari e i sopravvissuti, molti dei quali oggi non ci sono più. Tutt’oggi, sull’argomento, vige ancora il segreto di stato. Per ridare loro la memoria che meritano, questa mattina, a 50 anni esatti, a Fiumicino è oggi in programma una commemorazione.

 

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