Abbiamo accennato più volte, nelle puntate precedenti, alla nascita, in diverse città d’Italia, negli anni ’70, di un nuovo strumento di protesta urbana contro, principalmente, la politica comunale. Strumenti nati in quelle periferie che, nei due decenni precedenti, erano sorte dalla forte domanda di case che subentrò con l’aumento demografico e la migrazione dalle campagne alle città di moltitudini di cittadini alla ricerca di lavoro nella nuova Italia nel pieno di un’industrializzazione incapace di accoglierli tutti, specialmente dopo la fine degli anni del miracolo economico, e spesso, figlie di una speculazione edilizia più attenta al profitto che alle esigenze dei residenti, incapace di assicurare molti servizi fondamentali.
Parliamo dei comitati di quartiere, strumenti di protesta civica contro la politica delle città, per ottenere quei servizi che latitavano, in quartieri popolari spesso abbandonati al degrado e alla povertà.
A Bitonto li abbiamo conosciuti solo in anni recenti, come creazione della coalizione di maggioranza e della giunta oggi al governo cittadino. Ma tra questi e quelli che si diffusero negli anni ’70 corrono molte differenze. Questi ultimi, infatti, lungi dall’essere organismi riconosciuti e istituzionalizzati, erano gruppi spesso nati spontaneamente nei quartieri, nelle periferie dimenticate e in preda al degrado, talvolta guidati dai movimenti della sinistra extraparlamentare, dai gruppi anarchici, che delle rivendicazioni della periferia si fecero portavoce. Piccole palestre di democrazia e partecipazione, ma talvolta anche di retorica campanilista, attorno a carismatiche personalità locali magari prive di cultura politica, ma in grado di trascinare a sé consensi.
Abbiamo avuto modo di parlarne anche nella puntata di domenica scorsa, a proposito dei movimenti anarchici che si diffusero in Italia in quel decennio. Per gli anarchici, infatti, ma non solo per loro, i comitati di quartiere erano un utile strumento per far crescere la coscienza di classe nel proletariato e, dunque, combattere il sistema capitalista, in quanto nella loro ottica era necessario lavorare e agire lì dove le masse vivevano e trascorrevano il proprio tempo: nelle fabbriche, nelle scuole e, appunto, nei quartieri, che erano il luogo dello sfruttamento indiretto, cioè di quello sfruttamento non relegato nella fabbrica, dove gli operai subiscono quello diretto, ma frutto degli effetti del consumismo, dell’inquinamento ambientale, della selezione scolastica, del carovita, di un’assistenza sanitaria insufficiente, della speculazione edilizia che condannava a vivere in quartieri ghetto, in preda al degrado.
I comitati di quartiere, dunque, diventarono un modo, per quei movimenti nati dal clima di contestazione, per trovare un’unità di lotta con gli operai e gli studenti che non fosse solo ideologica, ma che si basasse su problemi concreti, quelli del quartiere, scavalcando così la mediazione di sindacati e partiti ed evitando il rischio di istituzionalizzazione.
Da questo punto di vista, specialmente da parte anarchica, i comitati di quartiere erano percepiti come l’alternativa ai consigli circoscrizionali, creati nel ’76 per andare incontro a queste nuove istanze e per proseguire sulla strada del decentramento, avviata con l’istituzione di province prima e regioni dopo. Assemblee pubbliche viste come il frutto di un minaccioso decentramento riformista che rappresentava il male maggiore, come una concessione piccola per contrastare quell’ondata di spontaneismo. Un “lupo travestito da agnello”, un contentino per dare l’illusione di una democrazia dal basso, ma in realtà con il solo fine di sottrarre alcune funzioni amministrative al potere centrale, ma solo per far sì che la borghesia locale acceda ai privilegi legati alla gestione di esse. Organi con poteri limitati, creati dall’alto, in cui i cittadini possono sì partecipare, ma avendo pur sempre qualcuno che, sopra di loro, decide realmente e spinge il cittadino alla consulenza, al clientelismo. Un modo per recuperare, attraverso piccole concessioni, quel che lo spontaneismo dei nuovi gruppi aveva conquistato direttamente e di incanalare nelle vie istituzionali le istanze proletarie, sedandole pacificamente.
Non risultano comitati di quartiere a Bitonto in quegli anni, sebbene, a pochi chilometri da qui ne sorsero alcuni a Bari, come ad esempio i comitati dei quartieri di San Pasquale e San Marcello, a cui abbiamo già accennato. Inizialmente gestiti da esponenti del Movimento dei Cristiani per il Socialismo, a cui poi si affiancarono gli anarchici, disciplinati con metodo assembleare con cariche elettive ma revocabili dall’assemblea, i suddetti comitati puntavano, ad aiutare i residenti con servizi di consultorio, di doposcuola ed erano anche un modo per affrontare un’altra grande questione cara, quello delle condizioni in cui vivevano molti cittadini appartenenti alle classi economicamente meno agiate, che avevano difficoltà ad accedere all’edilizia popolare, vivevano in edifici in cui mancavano o erano carenti i servizi di manutenzione o in zone dove servizi come fogne, strade, asili, scuole, verde e persino ambulatori, erano insufficienti o del tutto assenti.
Spesso diventavano vero e proprio polo culturale del quartiere, per sopperire ad un altro aspetto spesso trascurato dalle amministrazioni locali nei quartieri popolari. Talvolta si stampavano e si distribuivano dei bollettini di quartiere utili per la controinformazione, e si organizzavano spettacoli autogestiti, come è ricordato nel già citato libro “Gli anarchici di piazza Umberto”, in cui, a proposito dell’attività del quartiere San Pasquale di Bari, si cita il coinvolgimento del bitontino Michele Mirabella, all’epoca giovane attore del Cut, il Centro Universitario Teatrale: «Il comitato […] ebbe la capacità di coinvolgere gente come Michele Mirabella, che non si definisce certo un compagno anarchico! Gente che si sentiva di dare un contributo. Chiamammo Mirabella con suo “Don Pancrazio Cucuzziello” (che era una maschera pugliese) e anche l’Anonima G.R. Organizzammo tutta una serie di spettacoli per “entrare” e farci conoscere».