La droga. Un argomento che, in questi giorni, è sotto i riflettori per la distribuzione, su Netflix, della docu-serie “SanPa: luci ed ombre di San Patrignano”, sulla storia della famosa comunità terapeutica di recupero per tossicodipendenti, fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli. Non ci interessa, in questa sede, parlare della serie, né del dibattito sulla figura del fondatore. Vogliamo, invece, concentrarci sul fenomeno della droga, che proprio negli anni ’70 si diffuse drammaticamente. Lo abbiamo accennato già nelle due precedenti puntate, sottolineando come le organizzazioni criminali si buttarono in nuovi business, come appunto il traffico di sostanze stupefacenti, il cui uso aumentò a dismisura tra i giovani, favorito da alcune frange della contestazione sessantottina, dedite all’utilizzo ricreativo di droghe come hashish e Lsd. Fu diffuso, inizialmente, soprattutto tra i giovani del movimento hippy statunitense, che si distinse, oltre che per la predicazione di costumi molto liberi, anche per un frequente uso di Lsd, potente allucinogeno.
Ma fu soprattutto negli anni ’70 e nel decennio successivo che il fenomeno assunse dimensioni tragiche, che si comprese la gravità del problema, misurata dalle morti per overdose, dall’aumento dei reati legati alla droga, dai numeri dei tossicodipendenti. La droga divenne un fenomeno mondiale, non solo perchè modificò le strutture della criminalità organizzata, ma anche trasformò la vita delle città e dei giovani. Bari e la sua provincia divennero uno dei più grandi mercati della droga. E Bitonto iniziò quel triste percorso che la portò a diventare un importante mercato di spaccio. Se si sfogliano le pagine del “Da Bitonto” degli anni ’80, non è raro trovare articoli sul tema della lotta alle tossicodipendenze e alle droghe.
«Il problema della droga ha raggiunto cifre allucinanti – denunciò il “Da Bitonto”, nell’edizione di novembre – dicembre 1987 – Nelle città, ovunque si vada, ci si imbatte in siringhe sporche di sangue, abbandonate per terra dai tossicodipendenti».
Fenomeno, quest’ultimo, che assunse una gravità ancora maggiore con la diffusione dell’Aids, che vide un facile canale di trasmissione proprio tra i tossici che, per iniettarsi l’eroina, erano soliti scambiarsi le siringhe.
Negli anni ’70, nelle società occidentali, l’uso delle droghe da fenomeno che riguardava solamente una minoranza di contestatori nell’America degli anni ’60, dilagò in ogni paese coinvolgendo tutte le classi sociali e dando inizio ad un’epidemia a cui non si era affatto preparati, quella della tossicodipendenza, che colpì sempre più soprattutto i giovani. Iniziarono sempre più a girare, per le strade, ragazzi trasandati, sporchi, privi del pieno controllo di sé, perché sotto effetto di stupefacenti. Le città italiane diventarono enormi piazze di spaccio, i centri storici e le periferie, i piccoli paesi furono invasi dai tossici e dagli spacciatori, dalle siringhe abbandonate a terra. Un’epidemia di cui non si ebbe contezza fin da subito. Si tese ad affrontare la questione solamente in termini di lotta al fenomeno criminale, identificando il tossicodipendente solamente in un potenziale delinquente, propenso a tutto pur di procurarsi la dose. Un atteggiamento di criminalizzazione che non aiutò per niente chi cadeva nelle grinfie delle sostanze stupefacenti. Non aiutava le famiglie, che si trovarono sole ad affrontare un problema ingestibile. E non aiutava gli stessi ragazzi che erano disincentivati a farsi aiutare per il timore di essere criminalizzati. Solo più tardi, quando le morti per overdose registrarono una tragica impennata e i reati riconducibili alla droga aumentarono, iniziarono a sorgere servizi e strutture che si proponessero di strappare i ragazzi a quel destino infausto che la droga consegnava loro, a quelle catene invisibili che imprigionavano sempre più persone. Comunità laiche e religiose che diedero vita a strutture in cui i drogati potevano rivolgersi per chiedere un aiuto a disintossicarsi.
All’inizio il fenomeno riguardava l’uso di sostanze legali, come le anfetamine. Ma dagli anni ‘70 iniziarono ad arrivare, anche in Italia, droghe come l’eroina e, in tempi rapidissimi, come un virus dall’alta carica infettiva, si diffusero.
Inizialmente il consumo di eroina si concentrò specialmente tra gruppi di giovani che erano espressione di culture antagoniste, come strumento per fuggire ai valori consumistici e all’establishment politico. Ma questa effimera concezione dell’eroina come arma di ribellione e lotta politica non durò a lungo, estendendosi, ben presto, in altri contesti, grazie anche all’abbassamento dei costi causato dall’ingresso nel mercato delle mafie, che ne fecero una potente e remunerativa industria. E così si ebbe l’accelerata del fenomeno della seconda metà degli anni ’70, tra quei ragazzi alle prese con una fase negativa dell’economia che videro in quelle siringhe cariche di eroina, una via di fuga dai problemi di disoccupazione, povertà. L’eroina si infiltrò in generazioni arrabbiate, deluse e disilluse. Divenne, infatti la “droga dei poveri”.
«Migliaia di giovani sono emarginati dalle famiglie, non riescono a trovare lavoro e sono costretti a piccoli reati per procurarsi la droga» spiegò il reportage della Rai di Giuseppe Marrazzo che, nel 1980, raccontò dei «ragazzi che muoiono ogni giorno lentamente», della “generazione scomparsa”, come fu denominata quella marea di ragazzi uccisi dalle droghe in quegli anni. Tanti ragazzi che persero la vita o che furono gravemente menomati a livello psichico a causa dell’uso di quelle sostanze. Lo stato provò ad arginare il problema e, nel ’75 fu istituita la legge che istituì il diritto alle cure dei tossicodipendenti e che divise le droghe in due categorie, leggere e pesanti. Hashish e marijuana furono incluse nelle leggere, stabilendo pene minori per il loro traffico, mentre eroina e cocaina furono catalogate come pesanti, insieme a tante altre sostanze. Fu favorita, in questo contesto, la nascita di comunità di recupero.
Un fenomeno, tuttavia, che si presta a notevoli interpretazioni sulle cause. Tra le teorie che tentano di spiegare l’introduzione delle droghe nelle società occidentali, infatti, ci sono quelle che vedono, all’origine, una presunta collaborazione tra narcotrafficanti e le forze governative volta a diffondere l’eroina per sedare i movimenti sociali antigovernativi, che già erano noti per essere dediti al consumo di droghe a scopo ricreativo. L’eroina, dunque, serviva, secondo queste teorie, a rendere essenzialmente inefficaci questi gruppi politici, a renderli innocui. È la teoria che spiega il fenomeno come frutto della cosiddetta “operazione Blue Moon”, un’operazione targata Cia e volta a far sì che l’eroina fosse immessa sul mercato attraverso una vera e propria operazione di marketing, approfittando della predisposizione di alcuni gruppi all’uso di sostanze stupefacenti e avvalendosi dell’aiuto della malavita organizzata.
Ad aggravare la situazione fu la diffusione, nel decennio successivo della cocaina, ben più costosa e non alla mercè di chiunque, che trovò i suoi canali in ambienti meno ai margini. Anzi, tutt’altro. Iniziò a diffondersi, infatti, negli ambienti più rampanti della società e dell’economia come strumento per stimolare la propria concentrazione nel mondo del lavoro. O nell’ambiente delle discoteche, come ingrediente di una cultura dello sballo che prese campo sempre più, accompagnata dalla progressiva caduta delle appartenenze politiche, da una cultura del disimpegno politico nata per lasciarsi alle spalle le drammatiche tensioni sociali degli anni precedenti.
Ma torniamo agli anni ’70. Anni difficili, come abbiamo visto più e più volte nel corso di questa rubrica. Torniamo per ribadire quanto già anticipato a proposito dell’aumento dei reati e del clima di insicurezza che si diffuse nelle città italiane. In quel contesto la droga divenne un terreno anche di scontro, dal momento che, mentre alcune forze più libertarie, come il Partito Radicale, avviarono campagne per la legalizzazione delle droghe leggere, altre forze politiche utilizzarono l’argomento per far leva su istanze securitarie, sulla voglia di sicurezza, sulla paura, utilizzando tutti ciò per farsi largo nell’arena politica italiana. Anche sfruttando una narrazione antipolitica volta ad accusare la politica tradizionale di incapacità nell’affrontare la questione. Una retorica securitaria che fu propria soprattutto della destra.