Nel 1991, prima dello scoppio di Tangentopoli, quella che sarà ribattezzata “Prima Repubblica”, iniziò a sfaldarsi, perdendo un primo tassello. Il primo, tra i suoi protagonisti, il Partito Comunista Italiano, dopo settanta anni dalla sua fondazione, uscì di scena. A decretarne la fine, la cosiddetta “svolta della Bolognina”, rione di Bologna dove, dal novembre 1989, si aprì quel processo politico che, due anni dopo, portò allo scioglimento del partito e alla sua confluenza nel Partito Democratico della Sinistra. Ad avviarlo, l’allora segretario del partito Achille Occhetto, la cui mozione, appoggiata anche da Walter Veltroni, Massimo D’Alema e Giorgio Napolitano, risultò vincente.
«Cari compagni e care compagne, in molti sentono che è giunta in qualche modo l’ora di cambiare» annunciò Occhetto aprendo, a Rimini, il ventesimo e ultimo congresso del Pci, nel gennaio ‘1991, che si concluse il mese successivo, con il passaggio al nuovo soggetto politico. Fu la fine del più grande partito comunista dell’Europa occidentale. Il nuovo partito, denominato “Partito dei Democratici di Sinistra”, adottò come simbolo una quercia, confinando lo storico stemma del comunismo, falce e martello, ad un piccolo spazio alla base del tronco della quercia. Occhetto fu il primo segretario, mentre Stefano Rodotà il primo presidente.
Ma le origini di questa conclusione vanno cercate negli anni precedenti. Non solamente a partire dell’89, quando, con il crollo del Muro di Berlino, iniziò il crollo del comunismo sovietico. Se si vogliono comprendere le motivazioni che portarono alla fine del Pci, si deve fare un ulteriore salto indietro nel tempo, sino ad arrivare agli anni ’70. Anni difficili, come abbiamo più volte sottolineato nel corso di questa rubrica. Anni in cui il partito subì forti contestazioni e la crisi economica, fomentata da shock petroliferi e monetari, pose le basi per quelle politiche economiche che furono adottate in tutto l’Occidente a partire dagli anni ’80. Politiche neoliberiste che decretarono il declino del ruolo statale nello sviluppo economico a vantaggio del ruolo del privato, dalla deregolamentazione dei movimenti di capitale, dalla lotta all’inflazione che diventò prioritaria rispetto alla lotta alla disoccupazione, nella speranza che con meno posti di lavoro disponibili le persone potessero accontentarsi di salari inferiori.
Non c’è da stupirsi, quindi, del fatto che gli anni Ottanta furono anni difficili per il Pci. In tutto l’Occidente, il movimento operaio entrò in crisi. Una dimostrazione la si ebbe già nell’85, con la sconfitta al referendum sulla scala mobile del 1985, che sancì una vittoria per il Psi craxiano. L’improvvisa morte di Berlinguer portò alla breve segreteria di Alessandro Natta, prima di essere sostituito, per motivi di salute, da Achille Occhetto, nell’88. In quegli anni, anche l’Unione Sovietica, che per decenni era stata l’orizzonte a cui guardare per i comunisti europei, era entrata in una profonda crisi. Tutti questi furono fattori che, per Occhetto, imponevano un rinnovamento che partisse già dal nome. Ci si volle liberare di quella pesante eredità che comportava la dicitura “comunista”.
Fu questo il contesto che portò, il 3 gennaio, all’avvio del XX congresso del Pci. Tre furono le mozioni presentate. Oltre alla già citata mozione di Occhetto, denominata “Per il Partito democratico della sinistra” (da cui poi fu tratto il nome del partito erede del Pci), ci fu “Per un moderno partito antagonista e riformatore”, che voleva un rinnovamento graduale, nella politica e nella organizzazione, senza, però, rinnegare il Comunismo, al contrario della prima. Fu proposta da Antonio Bassolino, Alberto Asor Rosa e Mario Tronti. Mentre la terza mozione, denominata “Rifondazione comunista” e sottoscritta da Pietro Ingrao, Lucio Magri, Alessandro Natta, Armando Cossutta e Luciana Castellina, si opponeva totalmente alla nascita del nuovo partito. Tanto che, alcuni dei suoi proponenti, nello stesso anno, decidendo di non aderire al Pds, diedero vita a Rifondazione Comunista, dal nome della mozione sconfitta al congresso riminese.
La mozione di Occhetto, che fissava le linee guida che avrebbero disciplinato il nuovo partito, vinse, raggiungendo il 67,46% dei voti. Ma, prima di arrivare alla svolta della Bolognina, ampio fu il dibattito, anche a Bitonto.
Già segretario del Pci, a guidare la transizione verso il nuovo partito, continuando a ricoprire il ruolo, fu Giuseppe Rossiello, che, in una nota pubblicata il 12 settembre 1991, sulla necessità di riforme negli enti locali, disse: «Ricomporre il variegato e disperso arcipelago delle forze di sinistra e di progresso del Paese è l’obiettivo politico del Pds. […] L’intenzione del Pds è rompere il regime di pentapartito che ha prodotto, negli anni ’80, una politica rovinosa negli enti locali».
Il Pds, infatti, inseguendo quel riformismo figlio della crisi politica di quegli anni e ricercando nuovi consensi, appoggiarono le riforme proposte nei mesi successivi verranno avanzate. A partire dalla campagna referendaria per l’abrogazione del sistema elettorale proporzionale, che si tenne il 9 giugno (ne parleremo nel prossimo appuntamento) e dalla riforma del sistema di voto nei comuni, che portò alla legge 81/1993 per l’elezione diretta del sindaco.