Se sei a
Tirana, in quel nugolo di macchine, motori e carrette ambulanti, percorrendo le
lunghe strade del centro, ti ritrovi, prima o poi, di fianco alla Cattedrale di
san Paolo.
Lì, come un
po’ dappertutto nella Capitale dell’Albania, troneggia la foto di Nene Tereza,
Madre Teresa di Calcutta.
Di Calcutta, certo, ma anche “albanese di
sangue”, come scriveva proprio la santa dei poveri e dei disadattati,
parlando di sé.
Oltre la chiesa,
ornata da una statua del santo e da un Crocifisso in ferro che, da un lato
all’altro del luogo sacro, abbracciano un pezzo di cielo, c’è un ponte in
legno, con dolci arcate che danno sul fiume Ishem.
Ancora più
giù, si apre una piazza.
Ci arrivi camminando tra vecchie gipsy rumene,
olivastre e rugose, che ti vendono merce dell’est, masticando il tabacco che
fuoriesce dalle loro sigarette consumate.
Vista da
lontano, la piazza sembra squarciata da una specie di cicatrice.
È solo
avvicinandoti, che il mistero si rivela per quello che è: si tratta di una
campana, sorretta da due binari in ferro, lamiere parallele laminate di rosso.
È la Campana
della pace, messa lì a eterna memoria dei delitti (ancora troppo poco noti) del
comunismo.
Dietro quel semplice, ma così denso di significato, monumento, c’è
una piramide: la Piramide della libertà.
Costruita in
modo tale (spiegano i vecchi albanesi che trovano ristoro dalle loro affannate
corse di vita quotidiana sulle panchine del centro) che vista dall’alto, magari
in elicottero, sembri un’aquila. Con tanto di apertura alare nella massima
estensione.
Le pareti
sono ornate da murales realizzati dai giovani graffittari delle zone suburbane.
Lisce, ripide, ma percorribili. Quando me lo dicono alcuni studenti, stento a
crederci.
Sorridendo, mi invitano a provare.
Accetto.
Passo dopo passo, mi avventuro in quella che, all’inizio, sembra una follia: la
scalata dei muri esterni della piramide della Libertà.
Una follia, sì, che
tuttavia, alla fine, si rivela una assoluta meraviglia.
D’un tratto,
infatti, Tirana ti esplode senza alcun pudore, come una donna sensuale e
disinibita, davanti agli occhi.
Uno skyline umile e imponente.
Bandiere rosse
sotto nuvole corvine. Le fedeli vette dei Balcani a incorniciare il volto
zingaro della Capitale.
In cima, ci
sono due ragazzini, non più di quindici anni. Ridono, scherzano, fumano. Si
voltano, uno di loro mostra una dentatura rovinata che dona a quel volto una
grazia innocente.
“Ciao”,
azzardo. “Ciao”, rispondono.
Si mettono
in posa, abbracciandosi. Una foto. E lì, da qualche parte, in quelle periferie
distrutte che si aprono davanti a noi, ci deve essere la loro casa. Ci
salutiamo.
Ciò che
resta è una pensosa malinconia. Quella del desiderio di pace che avverti seduto
sulla punta di una piramide costruita nel cuore di una città distrutta dalla
guerra. Poi, il tramonto.
È ora di
andare. I minivan rombano, ci porteranno verso nord, lontano da Tirana, dove i
villaggi albanesi hanno nomi difficili da pronunciare, voragini nelle strade,
tradizioni balcaniche secolari.
E tanta
gente povera, che passa la vita a trovare motivazioni per essere felice…