Chi di voi almeno una volta non è rimasto affascinato dal film “La ricerca della felicità“?
Will Smith cerca disperatamente di tirare avanti, sottoponendosi ad una frustrante ricerca quotidiana di lavoro e sostentamento senza far percepire il peso di questa condizione al figlio, a cui tutto appare come un gioco in cui si corre da una parte all’altra.
Il film non poteva che essere ambientato a San Francisco.
Un film limpido, sincero, straziante.
Un titolo appropriato, che rispecchia il modus vivendi degli abitanti di questa città.
Se non fosse che molti associano alla felicità il soddisfacimento si esigenze molto, molto diverse. Per la maggior parte essere felici significa riuscire ad arrivare alla fine della giornata con qualche spicciolo in tasca e un panino fra i denti; per pochi altri significa chiudere alla sera il cancello della loro “dimora” con un’altra valigia colma di dollari in mano.
Il divario economico è assai più evidente che in qualsiasi altra città del mondo.
Chi tutto e chi niente: non è una frase fatta.
Le strade scoscese e ripide che, in salita e in discesa, si arrampicano sulle colline californiane a ridosso dell’Oceano Pacifico già caratterizzano questo territorio e, in qualche modo, sono specchio di una società in cui molti “salgono” sempre più e moltissimi altri “cadono” progressivamente in un inferno senza possibilità di ritorno.
Bellezza e degrado.
Ricchezza e povertà.
Lavoro e disoccupazione.
Impegno e indifferenza.
La libertà è sempre un’arma a doppio taglio.
E San Francisco, più di tutte le altre realtà americane, ha fatto della libertà di vita e di pensiero il suo baluardo.
La targa ancora lucidata sulla casa (che era stata) di Jimmi Hendrix ne è un chiaro indizio.
Il 1967 è tuttora ricordato come una tappa fondamentale per la diffusione di quei gruppi giovanili, ispirati e motivati dal desiderio di stravolgere le regole, di rendere l’amore libero, di combattere l’idea della guerra “mettendo nei fucili i fiori anziché le munizioni“.
Spesso si radunavano nel quartiere di Haight-Ashbury, dove ora – dalle macerie di quei garage colorati e un tempo abitati dai giovani “Figli dei fiori“- sono sorti enormi complessi residenziali. Qui i più grandi magnati americani si sono stabiliti per tenersi lontani dal centro città e per non mischiarsi con centinaia di barboni e disadattati, affetti da patologie psicologiche gravi, che circolano spesso per le strade principali.
Bisogna essere meno razzisti e più tolleranti di quanto già siamo nel 2016 per abitare a San Francisco.
Occorre che regredisca il nostro istinto al giudizio facile per non condividere la scelta delle istituzioni che tentano di mantenere un sano equilibrio fra le differenze consistenti di questo popolo.
I camion itineranti alle scale del Comune che contengono docce pubbliche per sollecitare i barboni a usufruirne è un chiaro esempio, non di rassegnazione all’esistenza di questo fenomeno, ma di tolleranza ed esercizio all’integrazione.
Questa scelta di convivenza fra molteplici personalità e di condivisione delle problematiche sociali non è da tutti e insegna che rispettare le differenze, di religione, di pensiero, di tendenze sessuali, di abbigliamento è difficile, ma non impossibile e suggerisce che la libertà, se interiorizzata in modo autentico, può essere la più grande risorsa di un popolo.