Sono quasi le
tre e il Lido dorme silenzioso da quando si è spenta l’ultima luce dei palazzi
del grande cinema.
Mentre mi allontanavo
dalla Sala Grande, sul viale del
ritorno ha cominciato a piovere. Me ne sono reso conto soltanto quando le gocce
di pioggia hanno iniziato a bagnarmi la schiena, preso ancora, com’ero, da
quello cui avevo assistito. Non un semplice film, Arrival di Denis Villeneuve,
ma un evento irripetibile in anteprima mondiale con gli attori protagonisti, Jeremy Renner e Amy Adams, presenti in sala, in mezzo a noi.
Voci sulla grande
qualità dell’ennesima opera riuscita del regista canadese si erano già sparse
per le sale. Capannelli di giornalisti e critici ne parlavano tra loro, a
tratti alzando appositamente la voce per rendere pubblica una qualche
considerazione che ritenevano particolarmente sagace. Qualche recensione aveva
fatto capolino sulle principali riviste americane ed inglesi in barba
all’embargo sulle review di film presentati alla stampa da meno di
ventiquattrore. Tutte per lo più entusiastiche.
Dodici navicelle aliene
atterrano sul nostro pianeta in luoghi tra loro anche molti distanti. Meglio,
restano sospese a poca distanza dal suolo terrestre. In attesa dell’incontro.
Perché sono arrivati? Che cosa vogliono? Per scoprirlo bisogna prima cercare di
stabilire un codice di comunicazione condiviso, comprensibile per entrambe le
parti. A farlo sarà Amy Adams, nei panni della prof.ssa Banks, linguista tra le
più esperte al mondo che insieme ad un team di scienziati e militari cercherà
di dialogare con la navicella atterrata in terra statunitense, in Montana.
Il linguaggio: questo strumento, quest’arma, questa risorsa così
spesso sottovalutata, ma dal potere incredibile.
Quando si sono riaccese
le luci, un lungo applauso ha colmato la sala e ha fatto emozionare i due divi
che si sono abbracciati a lungo, come a voler condividere la felicità scaturita
dalla consapevolezza di aver preso parte a qualcosa in grado di smuovere
l’animo degli spettatori. Qualcosa di una certa importanza, dunque. Qualcosa
che forse finora soltanto La la Land, tra i film in concorso a
Venezia 73, è riuscita a fare.
Due americani, uno
statunitense e un canadese, in grado di sfruttare sino in fondo gli stilemi dei
generi prescelti per farne opere profondamente diverse, umane, improntate alla
fuoriuscita dai canoni di genere per parlarci della stessa medesima cosa: dell’umanità, delle gioie e sofferenze cui
è destinata, dell’importanza delle nostre scelte.