L’unica
cosa certa della triste vicenda di Alessandro Simone, il 28enne bitontinoche si è tolto la vita il 28 maggio nel carcere di Bari, è che l’autopsia ha
negato la presenza di lesioni e violenze esterne.
Per tutto il resto, però, ci sono ancora troppi punti che restano oscuri in un
puzzle difficile da comporre.
L’inchiesta interna. Il calvario
(almeno quello più recente) di Alessandro comincia il 13 marzo, quando è
associato al carcere del capoluogo pugliese con le accuse di detenzione d’arma
(non trovatagli addosso, ma in campagna e ricondotta a lui) e di maltrattamenti
familiari (avrebbe picchiato la sua compagna, più grande di lui, che poi ha
esporto denuncia).
Una volta in carcere, il giovane bitontino viene posto
nella sezione dei cosiddetti “sex offender”, cioè il reparto degli stupratori e
di chi ha commesso violenze sessuali, ed è sottoposto a regime di sorveglianza
h24, perché tenta due volte il suicidio (impiccagione e taglio delle vene) ed è
considerato un “soggetto problematico”.
Già, la sorveglianza. Dove
era quando Alessandro si è tolto la vita il 28 maggio? Dove era in quei 10 – 15
minuti in cui il giovane ha deciso di farla finita? Non ha funzionato bene?
L’inchiesta interna che è stata aperta proverà a fare luce anche su questa
questione.
«Alessandro si è
impiccato in bagno verso le 15 e lo ha fatto con una cordicella nera abbastanza
resistente di una tuta. Disponeva anche della molla delle mutande, ma non è
stato in grado di uccidersi con quella», sottolinea Luigi Ventola, avvocato della famiglia della
vittima.
Che, in esclusiva ai nostri taccuini, afferma poi come «a trovarlo sono
state 4 – 5 persone che non abbiamo ancora identificato ma che sono stati
ascoltati nella indagine interna che è stata aperta, così come è stato
ascoltato probabilmente anche il compagno di cella».
L’inchiesta della
procura. Oltre al
filone interno, anche la procura di Bari ha aperto d’ufficio un fascicolo
sull’accaduto (Pubblico ministero Domenico Minardi), che ha messo come prima
ipotesi di reato quella di istigazione o aiuto al suicidio, ai sensi
dell’articolo 580 del codice penale. «Perché se è vero che l’autopsia al
quale si è sottoposto Alessandro non ha verificato segni di violenza esterna – spiega
ancora il legale – non possiamo escludere che qualcuno all’interno del
carcere lo abbia costretto e istigato a compiere quel folle gesto, magari con
suggestioni, pressioni e/o convincimenti psicologici».
La famiglia del giovane
bitontino, però, (in primis mamma Caterina), vuole andare oltre e
capire, per esempio, che ruolo abbiano avuto gli psicofarmaci che Alessandro
assumeva in carcere, proprio perché “soggetto problematico”.
«Secondo la famiglia queste forti assunzioni di psicofarmaci, forse non bene
coordinati tra loro, piuttosto che aiutarlo lo hanno indebolito e portato ad
atti autolesionistici – sottolinea Ventola – e al riguardo abbiamo
chiesto da un lato di avere la cartella clinica e la corrispondenza, e
dall’altro al Pubblico ministero una perizia tossicologica».
«Vogliamo sapere quindi – arringa il legale – se Alessandro Simone si
sia ucciso da solo, o se qualcuno non fisicamente lo abbia aiutato a
farlo, e se lui sarebbe morto comunque, anche senza l’assunzione degli
psicofarmaci. Le indagini stanno facendo il loro corso e abbiamo piena
fiducia nella magistratura».
Terza indagine? L’avvocato Ventola non esclude
l’apertura anche di una sua indagine difensiva, «nella quale possiamo
raccogliere documenti e testimonianze, anche perché qualche giorno fa la mamma
di Alessandro ha avuto una chiamata da parte di una persona, ovviamente non
sappiamo quanto attendibile, che è stato nello stesso carcere del ragazzo e che
sarebbe disposto a raccontare qualcosa».
E la
famiglia della vittima come sta? «Ovviamente è sconvolta e vuole che
venga fatta giustizia», chiude il legale.