Secondo gli storici, gli studiosi, gli esperti e gli appassionati, quello consumatosi il 24 gennaio 1979 è un episodio che sarebbe meglio definire spartiacque. Senza dubbio è un qualcosa che ha lasciato il segno, perché un altro pezzo importante della per nulla noiosa storia d’Italia.
Sono passati 40 anni da quella giornata, ma di quello che è successo se ne parla ancora oggi. Pieni, pienissimi anni di piombo. Le Brigate rosse, che qualche anno prima hanno lanciato la loro cruenta guerra allo Stato imperialista delle multinazionali – Sim – e che hanno già ammazzato poliziotti, giornalisti e pure politici (sia pur con l’aiuto di altre forze, ora davvero poco occulte e non più avvolte nella nebbia), per la prima volta fanno fuori un operaio.
Già, un operaio.
Un esponente di quel partito, quello comunista, al quale si sono sempre vantati di essere vicini e di battersi. In modo unidirezionale, però.
A essere ucciso è, infatti, Guido Rossa, professione aggiustatore meccanico del reparto “Officina”. Viene riempito di colpi di arma da fuoco da un commando di terroristi che non gli lascia scampo appena salito a bordo della sua auto. Aveva 44 anni, una moglie e pure una figlia di 16 anni. La reazione nello Stivale non si fa attendere: le principali fabbriche scioperano, e ai suoi funerali partecipano 250mila persone, tra cui l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini.
A rigettare un occhio attento sull’accaduto, soprattutto sui personaggi che hanno partecipato è un libro, un altro, che serve a tener viva la memoria. “Uccidete Guido Rossa – Vita e morte dell’uomo che si oppose alle Br e cambiò il futuro dell’Italia”, scritto da Donatella Alfonso e Massimo Razzi con editore Castelvecchi. Ne parla, nell’ultimo numero, il settimanale “Venerdì” di “Repubblica”. Il volume è una storia nella storia perché Razzi è stato compagno di scuola e d’infanzia di Lorenzo Carpi, uno dei componenti di quel commando che ha fatto fuoco su quel giovane operaio. E di cui, guarda caso, si sono perse le tracce dopo quella mattina del 24 gennaio di 40 anni fa.
Un altro fantasma degli anni di piombo, ergo.
Tutto ha inizio il 25 ottobre 1978. Francesco Berardi, operaio dell’Italsider di Genova, accanto alla macchinetta del caffè mette un numero elevato di volantini brigatisti. In tanti lo vedono, ma nessuno decide di denunciarlo. D’altronde, come si fa a farlo? Tutti tranne uno. Guido Rossa rompe l’omertà e denuncia il compagno, infischiandosene della solidarietà di classe, e la manterrà anche al processo. Anche qui, però, è solo. Maledettamente solo. E nessuno lo ha fermato, nemmeno lo Stato.
Negli ambienti brigatisti, intanto, si decide che il 44enne operaio va punito. Non ucciso, ma soltanto gambizzato.
Ma qualcosa va storto quella mattina del 24 gennaio dell’anno dopo. Perché viene sì colpito alle gambe dal 30enne Vincenzo Guagliardo, ma anche mortalmente dal 29enne Riccardo Dura, morto l’anno dopo durante un blitz dei carabinieri.
Di quel gruppo di assassini, c’era un terzo elemento. L’autista. Lorenzo Carpi, appunto. Mai arrestato né processato, ufficialmente è latitante dal 1980, e pure condannato all’ergastolo per cinque omicidi.
Oggi dovrebbe avere 66 anni. Già dovrebbe, perché il libro di Alfonso e Razzi si pone tanti interrogativi e tanti dubbi. Perché è diventato terrorista? Quali sono stati i motivi di questa scelta per un ragazzo studente di Medicina e giovane funzionario del Partito comunista? E, soprattutto, dove si è nascosto in tutti questi anni?
Le domande non sono peregrine. Il problema è che rispondere, forse, non fa comodo proprio a nessuno.