In queste settimane di fermento e
tensione derivanti dall’incertezza delle sorti di ciò che resta del nostro
nosocomio cittadino, ed in particolar modo del Punto di Primo Intervento e
della sua operatività per l’intero arco della giornata, non possiamo non
affrontare l’annosa e delicata questione della responsabilità medica alla luce
del decesso del Sig. Rapio avvenuto il
27 aprile a pochi giorni da un intervento chirurgico di routine per l’inserimento
di una protesi al ginocchio.
Argomento sicuramente delicato e
complesso quello della colpa professionale medica che proveremo a rendere
fruibile ai lettori di questa rubrica, non tanto sotto il profilo sostanziale
del reato eventualmente ascrivibile in capo ai medici che hanno avuto in cura
il Sig. Rapio, bensì analizzando quelli che sono i cardini della riforma
Balduzzi e quali sono i concreti risvolti pratici di questa legge sui diritti
dei cittadini.
Nell’affrontare l’argomento della
responsabilità relativa all’attività sanitaria, appare essenziale una premessa
di carattere metodologico che riguarda e afferisce alla nozione di giudizio di
responsabilità.
In questo ambito il giudizio di
causalità presuppone quello di colpa e a seconda di come vengono definite le
regole di condotta e le relative violazioni, l’evento (che si vuole evitare
come ad esempio il decesso nel nostro caso) può essere considerato o meno
conseguenza della condotta (qualificata) del personale medico.
Si potrebbe dire che il giudizio di
causalità sia subordinato logicamente al giudizio di colpa.
La condotta colposa ha una connotazione
omissiva poiché la colpa del sanitario si concretizza nell’omissione delle
cautele doverose.
Con l’introduzione del Decreto Balduzzi
convertito nella L. 8 Novembre del 2012 n. 189, sono state introdotte diverse
novità in materia di responsabilità medica, tra cui l’esonero del sanitario per
colpa lieve nei casi in cui si sia attenuto a linee guida e protocolli,
andando, di fatto a depenalizzare tali condotte sottraendole al giudicato
penale.
Allo stesso tempo parte della comunità
scientifica ha evidenziato come tale Decreto fosse finalizzato ad evitare e
contenere il fenomeno della cosiddetta “medicina difensiva” andando
utopisticamente a tranquillizzare i sanitari nell’esercizio delle proprie
mansioni.
Nella prassi quotidiana, tuttavia, l’ago
della bilancia pende dalla parte di quei sanitari che si trincerano dietro il
rispetto ossequioso dei protocolli e delle linee guida, nonostante la stessa
legge preveda concrete tutele per coloro che nel tentativo di salvare la vita
umana perseguano scelte diagnostiche e terapeutiche non previste dai ridetti
schemi, proprio perché più alto sarà il grado di difficoltà del trattamento e
più saranno esenti da colpa grave i sanitari.
Sin dalle prime battute ci si è
interrogati se tale Decreto derivasse da quella esigenza di “spending review” e quindi dall’esigenza
di effettuare esami e prestazioni assolutamente idonei e necessari o se fosse
orientata a differenti finalità quali evitare il contenzioso giudiziario.
Anche ai fini di una corretta
contestazione del reato di omicidio colposo ex Art. 589 C.P., è opportuno
ribadire che il personale medico ne risponderà soltanto nel caso di colpa grave,
la quale consiste nella mancanza di diligenza, violazione di disposizioni di
legge, sprezzante trascuratezza dei propri doveri, non osservanza del minimo di
diligenza richiesto rispetto alle mansioni e agli obblighi di servizio.
Deve quindi trattarsi di errori
inescusabili per la loro grossolanità assenza di cognizioni fondamentali e
difetto del minimo di perizia tecnica ed esperienza professionale.
Essenziale va considerato lo sforzo
della comunità scientifica di definire e aggiornare linee guida e protocolli di
comportamento.
Tali protocolli, tuttavia, sono
tutt’altro che rigorosi poiché valgono come criteri di indirizzo per i medici
non essendo delle vere e proprie checklist, soprattutto se si considera che
l’attività sanitaria è troppo delicata e complessa per essere burocratizzata.
Tuttavia, secondo quanto disposto nel
Decreto Balduzzi, in linea generale può dirsi che il rispetto delle linee
guida, correttamente valutato in relazione al caso concreto, escluda la colpa.
Proprio tale principio ha spinto sempre
più medici ad effettuare la propria prestazione esclusivamente in funzione del
rispetto delle linee guida e non in funzione del “caso concreto”, andando di
fatto a scongiurare possibili giudizi di responsabilità nei propri confronti.
A tal proposito più volte è intervenuta
la Suprema Corte di Cassazione la quale a più riprese ha evidenziato come la
riforma della responsabilità medica, abbia di fatto determinato la parziale
abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti le professioni sanitarie (Cass. Pen. IV Sez.
Pen. Sent. N.16237 del 09.04.2013).
Tale linea di lettura del Decreto
Balduzzi ha portato il Tribunale di Milano a sollevare una questione di
legittimità costituzionale in relazione alla presunta violazione dell’Art. 3
della Costituzione poiché il Decreto Balduzzi costituirebbe una norma “ad professionem”, comportando un
irragionevole vantaggio per i medici.
A seguito dell’eccezione della ridetta
questione di legittimità costituzionale, la Corte emetteva un’ordinanza di
manifesta inammissibilità la quale, tuttavia, non scioglieva le riserve in
merito alla questione di incostituzionalità proposta.
La Corte Costituzionale, con l’ordinanza
N. 295 del 02.12.2013 rigettava la ridetta questione poiché “l’insufficiente descrizione della
fattispecie concreta impedisce alla corte la necessaria verifica della rilevanza
della questione”. La Consulta, pertanto, non è stata in grado di valutare
nel merito la questione sollevata dal Tribunale di Milano rigettandola
esclusivamente sulla base della genericità e astrattezza dei motivi di gravame.
Come spesso accade nel nostro
Ordinamento, è necessario un intervento della Suprema Corte di Cassazione
affinchè si traccino i confini di operatività di una norma, di un decreto o di
una legge, soprattutto quando il Legislatore non provvede ad eliminare e
correggere incongruenze e incertezze normative presenti nel corpo delle norme.
Pietra miliare nell’ambito della
responsabilità medica è la ormai basilare sentenza delle Sezioni Unite N. 30328
del 11.09.2002 nota come sentenza Franzese, con la quale si è riusciti ad
enucleare dei principi in base ai quali si potrà individuare il nesso di
causalità tra la condotta del medico e l’evento verificatosi.
Alla stregua di quanto stabilito dalla
Cassazione, il nesso causale può essere ravvisato all’esito di un giudizio
controfattuale effettuato sulla base di una generalizzata regola di esperienza
o di una legge scientifica, che accerti come, dando per effettuata e realizzata
dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe
verificato o si sarebbe verificato in epoca significativamente posteriore o con
minore intensità lesiva.
Allo stesso tempo, inoltre, il Giudice
di merito dovrà verificare la validità di quella legge scientifica o regola
generalizzata in relazione al caso concreto, tenendo presente le circostanze di
tempo e di luogo in modo che, all’esito del ragionamento probatorio, risulti
giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva
del medico sia stata condizione necessaria alla realizzazione dell’evento
nefasto.
A tutela della classe medica, inoltre,
nella medesima sentenza Franzese, la Corte afferma che nel caso in cui non sia
possibile stabilire con certezza un riscontro probatorio sulla ricostruzione
del nesso causale, l’esito processuale in riferimento alla posizione del
personale medico non potrà che essere di tipo assolutorio.
A fronte di queste brevi considerazioni
che non ci è possibile approfondire ulteriormente per questioni di spazi
editoriali, ma che sarebbe interessante ed auspicabile approfondire in altra
sede, appare necessario ricordare che il nesso causale è regolato dal principio
di cui agli Artt. 40 e 41 C.P., per il quale un evento è da considerare causato
da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo,
nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale
occorre dar rilievo soltanto a quegli eventi che non appaiono del tutto
inverosimili, fermo restando che nel processo penale vige la regole della prova
“oltre ogni ragionevole dubbio”.
A norma di quanto disposto al secondo
comma dell’Art. 41 C.P., le cause sopravvenute escludono il rapporto di
causalità quando sono da sole sufficienti a determinare e causare l’evento,
andando, di fatto, a frapporsi fra la condotta del medico e l’evento da
evitare.
Quanto sin’ora espresso in questo
articolo, descrive quelle che sono le direttive normative entro le quali la
magistratura dovrà agire al fine di individuare eventuali profili di
responsabilità del personale medico in relazione al decesso del Sig. Rapio, il
cui responso è affidato agli esiti dell’esame autoptico il quale dovrà
stabilire se ci siano state delle omissioni da parte dei medici o delle
condotte errate che integrino profili di colpa grave, così come dovrà valutare
se siano sopravvenuti elementi indipendenti e del tutto casuali che avrebbero
causato la morte del de cuius a
prescindere dalle prestazioni mediche erogate dai sanitari.
Non ci si può esimere, allo stesso
tempo, dall’auspicare una nuova riforma in tema di responsabilità e colpa
medica che tuteli davvero il personale sanitario e che soprattutto consenta al
cittadino leso dalle condotte negligenti e imprudenti dei medici di
intraprendere e perseguire le proprie iniziative giudiziarie senza che vi sia
l’ostacolo dell’effetto salvifico di una velata depenalizzazione.