Montecitorio, 31 gennaio 1950.
Seduta dei lavori della Camera dei deputati. Al Governo c’è Alcide De Gasperi, democristiano, da meno di due anni. Il deputato comunista cerignolano Giuseppe Di Vittorio prende la parola per un discorso che resta nella storia. “Onorevole presidente, onorevoli colleghi, il 9 gennaio 1950, nella città patriottica ed eroica di Modena, sei giovani operai caddero uccisi dalle forze di polizia nel corso di una manifestazione relativa ad una vertenza sindacale. Essi sono: Angelo Appiani, di anni 30, partigiano; Roberto Rovatti, di anni 36, partigiano; Arturo Malagoli, di anni 21, partigiano; Ennio Garagnani, di anni 21; Renzo Bersani, di anni 21, partigiano; Arturo Chiappelli, di anni 43, partigiano. Il massacro, di questi operai, di questi nostri fratelli, gettò nel lutto tutta la popolazione di Modena, la città martire e generosa che ha meritato la medaglia d’oro per il valore dimostrato nella guerra di liberazione nazionale. Quasi tutti gli uccisi furono valorosi combattenti nella guerra per la riconquista dell’indipendenza e dell’onore della patria. Questo eccidio gravissimo – forse il più grave della storia d’Italia – che si è aggiunto alla troppo lunga catena di eccidi di lavoratori che negli ultimi mesi va da Melissa a Torremaggiore, a Montescaglioso, ha messo in lutto tutti i lavoratori italiani, tutto il popolo nostro, e ha sollevato un’ondata di sdegno e di compianto nel mondo intero.”
Il presidente del Consiglio risponderà solo dopo qualche minuto. E cioè dopo che una donna che gli siede davanti, una eroina della Resistenza, tale Gina Borellini, gli getterà in faccia le fotografie delle vittime. E che dirà, senza infingimenti, “con questo mio gesto ho inteso esprimere il mio pensiero personale dopo i fatti sanguinosi avvenuti a Modena, e quello di tutte le donne modenesi: in quel banco siedono degli assassini!”.
Ventidue giorni prima, in effetti, a Modena si era consumata una strage. Forse la più fragorosa dei primi anni del secondo dopoguerra. Emblema di una situazione interna italiana a dir poco incandescente, e non solo perché c’era da ricostruire. Nel quinquennio 1945-1950, infatti, si respira un clima di repressione antioperaia e di forte anticomunismo, tanto è vero che una delle principali preoccupazioni era quella di allontanare, dalle Istituzioni e non solo, i comunisti.
E (alcuni) episodi – vedasi Portella della Ginestra e l’attentato a Palmiro Togliatti – sono eclatanti.
E poi c’è quello di Modena, in quella Emilia Romagna dove il Partito comunista, da decenni e in decenni, aveva creato una solida egemonia culturale; lo scontro fra il blocco sociale reazionario, di cui il governo democristiano era espressione e garanzia, e la classe lavoratrice, era aspro e forte; la realtà socioeconomica era dominata dal bracciantato e con una forte presenza di mezzadria e piccolissimo artigianato, e con non poche presenze di quelle Case del popolo in grado di agitare le masse contadine.
Per dirla con una frase, allora: le forti istanze di rinnovamento e progresso, proprie delle masse popolari, si scontrano con la coercizione esercitata dal fronte padronale.
Le “Fonderie Riunite” di Modena costituivano uno dei più importanti siti produttivi della città emiliana. Di proprietà dell’imprenditore Adolfo Orsi, sono nate nel 1938, ottenendo immediatamente numerose commesse da parte del regime fascista, e con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 diventa ancora più famosa e strategica.
Negli anni della dittatura, all’interno della fabbrica, vigeva la più ferma intransigenza nei confronti delle rivendicazioni operaie: la proprietà era avvezza all’utilizzo di metodi coercitivi drastici, impedendo qualsiasi forma di autorganizzazione o protesta. Ma con il dopoguerra, e con le spinte della Liberazione, qualcosa cambia: nascono i consigli di fabbrica e la stragrande maggioranza degli operai aderisce al sindacato e ai partiti del Fronte popolare. E gli scontri tra i lavoratori e il datore di lavoro si fanno frequenti, con quest’ultimo che maturava, giorno dopo giorno, la volontà di licenziamento del personale, creando un clima incandescente in tutta la città.
E, quindi, l’apoteosi. La mattina del 9 gennaio 1950, Modena si sveglia blindata: ci sono circa 1.500 poliziotti, armati fino ai denti e dotati di autoblinde da combattimento. L’obiettivo sono gli operai delle Fonderie Riunite, ai quali il questore ha ordinato di sgomberare la zona adiacente alla fabbrica, ma questi rifiutano. Il “no” scatena l’inferno, perché i lavoratori si ritrovano, in pochissimi secondi, colpiti dal fuoco.
Il bilancio è impietoso. Oltre 200 feriti (di cui molti non si sono recati all’ospedale per evitare ritorsioni penali) e ben sei morti: Angelo Appiani, 30 anni; Arturo Chiappinelli, 43 anni; Arturo Malagoli, 20 anni; Roberto Rovatti, 36 anni, Ennio Garagnani, 21 anni; Renzo Bersani, 21 anni.
I funerali si sono svolti due giorni dopo, davanti a 300mila persone. Dopo altri quattro giorni, la fabbrica riapre e gli operai progressivamente reintegrati.
Il processo relativo all’accaduto si è concluso con la piena assoluzione degli imputati – 34 lavoratori, accusati di varie accuse, tra cui resistenza a pubblico ufficiale -, mentre le famiglie delle vittime hanno ottenuto due milioni di lire come risarcimento.
Un umiliante indennizzo.