“Iaiv vulz però iaiv buune e allegre, che la resposte semb pronde“, con una rapida, icastica pennellata, lo scrittore Mimì De Palo, su un numero del da Bitonto di qualche anno fa, fece il ritratto di un personaggio mitico del passato della nostra città, inizi Novecento e dintorni: Mechèle Sallèie.
Nome che derivava dal suo tipico intercalare prendingiro (“Salleo“, cioè “Sa lei che…”, il cognome reale era Pazienza), tipico personaggio di un tempo ormai perduto, incarnava alla perfezione il detto popolare “Contadino, scarpe grosse e cervello fino“.
Numerose, infatti, furono le controversie, le situazioni ingarbugliate nelle quali si ritrovò questo indefesso lavoratore dei campi, una sorta di Michele Monopoli avanti lettera, perché come l’influencer odierno era celeberrimo e arguto, capace di intortare chiunque provasse a muovete obiezioni al suo operato con un motto arguto, rigorosamente in dialetto bitontino.
Uomo alto e robusto anzichenò, con un pugno schiudeva le noci. Spesso in tribunale per risolvere le sue intricate vicissitudini, riusciva a farla franca con sapide battute: come quella volta che procurò una ferita lacerocontusa ad un rivale, perché lo colpì col “chiùzz“, a sua insaputa nella tasca della giacca che gli aveva lanciato. Episodio, questo, che dà il titolo alla storica commedia dedicata al Nostro da uno dei monumenti del teatro vernacolare cittadino, il prof. Tanino Coviello: “Mechèle Sallèie, cà na mazzat D giacchet je stèut“.
Oppure, quando quasi per “usu capione“, si impadronì di due capi di bestiame finiti casualmente a pascolare nel suo fondo.
O, ancora, quando mise in iscacco un professore del liceo che lo rimbrottava perché maltrattattava la povera mula, di lui quotidiana vittima prediletta.
Chissà se i ragazzi di oggi sanno di questo personaggio leggendario, che dimorava da protagonista nei racconti, sapidi e appassionati, dei nostri nonni…