1953. L’Italia si prepara a tornare al voto, per rinnovare la composizione del Parlamento, dopo cinque anni dalle ultime elezioni del ’48 e dopo le recenti flessioni di voti che, alle amministrative degli anni precedenti, la Democrazia Cristiana ha subito. Una flessione di voti causa di svariati problemi nello stesso partito di maggioranza, con De Gasperi attaccato sia dalla sinistra del partito, dall’ala di Dossetti, Fanfani, Gronchi, sia da quella di destra di Rumor. Nel tentativo di correre ai ripari e conservare quell’egemonia conquistata sin dal dopoguerra, si inizia già dall’anno precedente a pensare ad una nuova legge elettorale. Una legge che preveda un premio di maggioranza alla lista che riesce a raggiungere la maggioranza assoluta, vale a dire il 50% più uno dell’elettorato italiano. Alla coalizione di liste che dovesse raggiungere una percentuale simile, è assegnato il 65% dei seggi alla Camera dei Deputati, in modo da assicurare una maggiore governabilità. Un escamotage ideato ad hoc per favorire i partiti della coalizione di maggioranza. La legge, proposta dall’allora ministro dell’Interno Mario Scelba, dunque, modifica il sistema proporzionale in vigore dal ’46, che è considerato più fedele, specialmente dalla sinistra, nel rispettare la rappresentatività del corpo elettorale. Ma che, al tempo stesso, costringe i partiti politici a fare alleanze sempre più difficili per garantire governi stabili.
Ma, sin da subito, quelle modifiche non piacciono all’opposizione di sinistra, che prova ad impedire in tutti i modi l’approvazione. Intervengono gli intellettuali, ci sono proteste all’interno delle due Camere del Parlamento e fuori, nelle piazze. Inizialmente a Roma, ma poi si diffonderanno in tutta Italia. Proteste che sfociano anche in scontri in aula e fuori, nelle piazze. Scontri con la Polizia, con arresti e cariche di cui ne faranno le spese anche politici stessi e giornalisti di sinistra. Pietro Ingrao viene pestato dagli agenti nelle sommosse del gennaio ’53. Ma, nonostante le proteste, a gennaio, alla Camera la legge è approvata il 21 gennaio, con 332 voti favorevoli e 17 contrari.
Per la sinistra quella è una “legge truffa”, appellativo con cui resterà nella memoria storica degli italiani e che verrà usato nuovamente per altri progetti di riforma elettorale. Tra i primi a coniare quell’espressione, dal chiaro tono dispregiativo, è Piero Calamandrei, anche se la genesi dell’espressione non è affatto chiara e c’è chi, come Montanelli, ne attribuisce la paternità allo stesso ideatore Scelba. La sinistra, attraverso Togliatti e Nenni, denuncia, inutilmente, una presunta incostituzionalità. Il leader comunista a gennaio propone anche una proposta di referendum, che viene bocciata.
Contro quella proposta si scatena una vera e propria rivolta parlamentare, dai toni accesissimi, specialmente dopo la decisione di De Gasperi di chiedere la fiducia sul provvedimento, per superare l’ostacolo dell’ostruzionismo dell’opposizione, e la proposta di Oscar Luigi Scalfaro di accelerare le votazioni anche al Senato, proseguendo persino nei giorni festivi, pur di approvare la legge in tempo per le elezioni politiche del 7 giugno 1953. E così è. Si vota, al Senato, il 29 marzo e la proposta passa con 174 sì e 3 astenuti, mentre nelle piazze di tutta Italia scoppiano proteste e scioperi indetti da partiti di sinistra e Cgil.
Se l’Unità parla di grandi manifestazioni di popoli, giornali non di area comunista, sminuiscono l’entità delle proteste scrivendo, ad esempio, come fa la Gazzetta del Mezzogiorno, “Clamoroso fallimento” o “Ieri dello sciopero generale nessuno si è accorto”.
Contro la “legge truffa” e il “colpo di forza clericale”, si protesta anche in provincia di Bari, a Andria, a Trani, Ruvo, Castellana, Putignano, Bitonto, Barletta, Carbonaro, Monopoli, Terlizzi, Corato, Gravina, Noci, Spinazzola, come riporta l’Unità denunciando le violenze della polizia contro i manifestanti. E la risposta delle forze dell’ordine, proprio a Bitonto, provoca un morto, Francesco Ricci, 57 anni, colpito mortalmente dalla polizia.
Ma, nonostante la Dc riesca a far approvare la sua legge elettorale, il progetto va incontro al fallimento, quando la coalizione, pur vincente, non riesce a raggiungere la percentuale di consensi adatta a far scattare il premio di maggioranza contestato dalla sinistra. Non solo. Mentre la Dc perse consensi, ne guadagnano quelle forze di sinistra che alla legge elettorale si sono opposte. Per la Dc di De Gasperi è una disfatta, che segna anche la condanna a morte della neonata legge elettorale, che sarà abrogata l’anno successivo.