Il 2018 fu l’anno dei 5 Stelle. Fu il movimento fondato da Beppe Grillo il vincitore indiscusso delle elezioni politiche 2018 con il 32% dei voti, mentre il centrodestra conquistò la posizione di prima coalizione con il 35%. Al suo interno, fu la Lega la forza più votata, con il 17,40%.
Non fu certo il primo successo elettorale per loro. Già cinque anni prima, i grillini furono i più votati, tanto che a Bitonto riuscirono a eleggere alla Camera dei Deputati Francesco Cariello. Ma non ci fu nessuna coalizione ad aver raggiunto una vittoria netta e così, rifiutando le alleanze, contrarie all’ortodossia pentastellata, non riuscirono ad arrivare a Palazzo Chigi e a far parte dell’esecutivo.
Il 2018 vide un altro successo del M5s e anche in quell’occasione, Bitonto espresse un deputato: si trattò di Francesca Anna Ruggiero, che prese il posto di Cariello, nel frattempo uscito dal movimento per divergenze.
Anche in quell’occasione, tuttavia, mancò una vittoria netta di una coalizione, tale da permettere facilmente la formazione del governo. Così, mettendo da parte quell’ortodossia, il M5s accettò di condividere con altre forze l’esperienza all’esecutivo. Falliti i dialoghi con il Pd, restio ad allearsi con una forza che aveva sempre manifestato aperta ostilità, i pentastellati finirono di allearsi con la Lega di Salvini. Proprio quella dell’inchiesta sulla frode 49 milioni di euro che era spesso protagonista delle invettive grilline.
Ma, senza alleanze, il M5s non avrebbe mai raggiunto l’esecutivo. E, così, nacque il governo Conte I, noto anche come “governo gialloverde”, i colori attribuiti alle due forze. Stesso discorso per il Partito Democratico, con cui il M5s si alleò in seguito alla crisi del governo Conte I causata nel 2019 da Salvini, dando vita al Conte II, detto anche governo giallorosso. Più volte il Pd era stato etichettato come un partito “mafioso” dalla propaganda grillina.
Torniamo alle politiche del 2018 per passare in rassegna i principali protagonisti della politica degli ultimi anni, prima di avviarci verso la conclusione di questa rubrica. Cominciamo da colui che fu nominato capo dell’esecutivo: Giuseppe Conte, avvocato e giurista pugliese. A lui toccò prendere le redini del movimento dopo la morte di Gianroberto Casaleggio (2016) e il ridimensionamento della leadership di Grillo, che dal 2017 mantiene solo la carica di garante del movimento. Conte tentò di dare al M5s una veste più istituzionale, lontana da quella dei “Vaffanculo” urlati dal palco del Vaffaday. Una veste meno populista. Almeno in apparenza.
Già, perché anche Conte fu una figura dai tratti populisti. A dimostrarlo, lo stesso appellarsi come “avvocato del popolo”. Espressione che riprende a pieno una caratteristica fondamentale del populismo, quella di dividere nettamente il cosiddetto “popolo” dalla classe politica, vista come astrusa dalla realtà, sempre pronta a danneggiare gli interessi della gente comune. Che, dunque, necessita di un “avvocato” che difenda la gente da un nemico comune, un capro espiatorio che è necessario per ogni populismo e che è individuato, nel caso del grillismo, nella classe politica (in altri tipi di populismo possono essere stranieri, migranti, gruppi etnici, ricchi e altre categorie).
Quello di conte fu, ovviamente, un populismo meno verbalmente violento rispetto a quello di Grillo, meno volgare, senza “vaffanculo” e senza i nomignoli ai vari personaggi politici. Senza palchi da cui urlare improperi, senza complottismi. Almeno ai vertici.
Per certi versi, quello di Conte fu un populismo simile a quello di Vendola, caratterizzato dalla narrazione del leader estraneo alla politica, ma pronto ad infiltrarsi in essa, per difendere il popolo dalle ingiustizie intrinseche al sistema.
«Sono populista nella misura in cui siamo consapevoli di questa frattura e stiamo agendo per risanarla» disse Conte in un’intervista al Fatto Quotidiano datata ottobre 2018. Una frattura da ricomporre, seguendo la tradizione grillina, con l’eliminazione della mediazione e un rapporto diretto con il leader. E con l’attacco al parlamento, tempio della mediazione e della politica, descritto come luogo dell’immobilismo o della politica corrotta, ostacolo al decisionismo governista e istituzione i cui costi superano la sua utilità. Un attacco portato avanti con l’arma referendaria (sul referendum del 2020 torneremo in uno degli ultimissimi appuntamenti di questa rubrica), sfruttando il risentimento antipolitico.
Quello di conte è anche un populismo fluido, trasformista, multiforme, in grado di legarsi prima al populismo di destra di Salvini e poi con la sinistra progressista e il Pd, abbracciando temi tradizionalmente di sinistra e ripulendo l’immagine del M5s dagli eccessi di Beppe Grillo, cercando al tempo stesso di ridare al movimento antisistema quella “verginità” persa con l’esperienza governativa.
Il populismo di Conte unisce «residui di radicalismi di sinistra e eredità di una antipolitica conservatrice, slanci per i diritti negati e i rancori della destra, il secessionismo del nord e il disagio meridionale, i nuovi linguaggi digitali giovanili e gli incubi senili di tipo securitario», scrisse Michele Prospero sul Manifesto, il 27 maggio 2018, poco dopo la formazione del governo gialloverde. Un populismo che passa dalla propaganda antimigranti sui “taxi del mare” (espressione coniata dal suo ministro Di Maio) a battaglie di sinistra come quella sulla riduzione dell’orario di lavoro.
Conte ha guidato il M5s attraverso la sua peggiore crisi dalla sua fondazione. Proprio il grande successo e il raggiungimento di quell’ambito ruolo di governo furono tra le cause del rapido ridimensionamento dei consensi e di una crisi che ha portato, nel tempo, a diverse defezioni, a contrasti con Davide Casaleggio, erede del padre Gianroberto, e a scissioni, tra cui quella di una delle principali figure del Movimento, Luigi Di Maio, fondatore, nel 2022, di una sua lista, dai risultati, tuttavia, molto deludenti.
Un calo che, però, non sorprende. Parliamo, infatti, di una forza politica nata dalla protesta antipolitica, dalla critica feroce ai partiti politici e alla politica e, poi, trovatasi ad essere protagonista di quella politica tanto dileggiata, alleata a due forze politiche che, precedentemente, aveva fortemente osteggiato.
D’un tratto i 5 Stelle divennero anche loro vittime di una feroce antipolitica, simile a quella a lungo utilizzata contro gli avversari. D’altronde, la storia insegna che l’antipolitica è un’arma a doppio taglio che, prima o poi, ferisce anche chi la impugna.