«Vogliamo continuare a consumare suolo? Eliminare un passaggio a livello è sempre positivo. Ma c’è da chiedersi se il sottopasso serva più alla cittadinanza o a chi ha interesse a costruire nuovi palazzi. A chi giova realmente la zona C2?».
Furono queste le parole utilizzate da Beppe Cazzolla in un’intervista rilasciata al mensile Da Bitonto nel settembre 2022, in cui si chiese se il sottopasso di via Santo Spirito, che ancora attende la realizzazione, serva davvero alla città. Per Cazzolla, più urgente è il completamento della poligonale con il ponte sulla via di Terlizzi, opera ancora incompiuta che, evitando l’ingresso dei mezzi pesanti, sarebbe davvero più ecosostenibile. L’intervento sulle pagine del mensile cittadino fu anche occasione per sottolineare sul tema del consumo di suolo e della lotta all’ulteriore cementificazione del territorio. Un tema spesso sottovalutato, ma che, dal dopoguerra ad oggi, è tremendamente di attualità. Diversi sono i danni arrecati, infatti, all’ambiente dalla cementificazione che ha provocato la nascita di centri urbani senza verde (e per questo anche maggiormente esposti all’aumento delle temperature), la distruzione di ecosistemi, il surriscaldamento delle città e persino la devastazione delle spiagge, vittime di una speculazione edilizia e di sistema capitalista che, per inseguire la crescente economia del turismo, ha ridotto sempre più gli spazi, con privatizzazioni spregiudicate, cementificazioni selvagge e con costruzioni, abusive o legali, sui litorali di tutta Italia (tema su cui bisognerebbe più spesso sollevare l’attenzione, evitando di concentrarsi solamente sugli effetti del caro prezzi nelle località balneari).
Ma torniamo a noi. L’ambientalismo è stato più volte protagonista delle cronache nazionali negli ultimi anni, a torto o a ragione. Basti pensare alle proteste contro Tav, ponte sullo stretto di Messina, Tap, Mose. O alle manifestazioni studentesche per invocare maggiori azioni contro il cambiamento climatico, ai vari “Friday for future”, all’impegno della svedese Greta Thunberg.
Talvolta si è trattato di battaglie sacrosante per la tutela ambientale, contro speculazioni e oggettive devastazioni ambientali. Altre volte c’è stata un’opposizione strumentale, finalizzata alla critica delle forze di governo. Abbiamo assistito anche ad inutili e controproducenti dimostrazioni sfociate nel teppismo (come i casi dei monumenti imbrattati che, non si sa in quale modo, dovrebbero portare lustro alla causa ambientalista, ma molto più probabilmente contribuiscono ad allontanare l’opinione pubblica e a desensibilizzarla).
Altre volte ancora, le battaglie ambientaliste sono sfociate in crociate campaniliste caratterizzate dalla cosiddetta sindrome “Nimby”, acronimo anglosassone che sta a significare “Not in my backyard”, ossia “non nel mio giardino” e vuol indicare un’opposizione ad un’opera o un intervento dettata non da veri principi di tutela ambientale, ma dalla sola paura di averla sul proprio territorio. Opposizione che, però, si trasforma in indifferenza in caso in cui si proponga un altro sito. Una sorta di egoismo dei territori, insensibile alle vicende di altri luoghi e alla ricerca di alternative all’opera o all’intervento proposto.
Ma quella ambientalista è anche tra le istanze principali che hanno caratterizzato le cronache politiche cittadine degli ultimi anni. Diverse sono state le battaglie ambientaliste intraprese da associazioni e forze politiche locali.
Nel corso di questa rubrica, abbiamo avuto modo di vedere, in più occasioni, come la causa ambientalista sia ancora molto forte nell’opinione pubblica, al contrario di altre questioni, ormai vittime della crisi della partecipazione democratica che si sta registrando negli ultimi decenni. Diverse sono state le associazioni che si sono attivate sia in occasione dei referendum sul tema ambientale, sia in altre occasioni, come, ad esempio, la battaglia del 2003 contro la possibilità che, sulla Murgia tra Puglia e Basilicata, sorgesse un sito unico nazionale per lo stoccaggio di scorie nucleari. Uno dei siti individuati fu, infatti, nell’agro ai confini di Mariotto, in quell’area detta “campo dei missili” a causa dell’esistenza, a cavallo tra anni ’50 e primissimi anni ’60, di una base militare Nato dotata di missili in grado di ospitare testate nucleari puntate verso Mosca. Contro quella decisione intervennero un Comitato antinucleare pugliese e l’associazione “Murgia verde”, il cui responsabile fu Vincenzo Fiore.
Pensiamo, ad esempio, alle battaglie referendarie sul nucleare, sulle trivelle e sull’acqua pubblica, che hanno visto molte associazioni attivarsi e aderire alle campagne nazionali. Ne abbiamo già parlato ed evitiamo, dunque, di dilungarci sull’argomento. Concentriamoci, invece, su battaglie più tipicamente locali (ne citiamo solamente alcune), che hanno visto protagoniste diverse realtà del territorio, talvolta in maniera efficace, altre volte in maniera disomogenea, perché più interessate a rimarcare il proprio ruolo egemone che ad una lotta unitaria contro la minaccia ambientale.
Possiamo citare, tornando indietro nel tempo, la vicenda delle discariche Ecoambiente, in contrada Torre d’Agera, nella zona artigianale. Fu il primo sito ad essere attivato in provincia di Bari e tra i primi in Puglia. La vicenda ebbe inizio nel 1987, quando fu realizzata la prima discarica che, a detta della stampa dell’epoca (Franco Amendolagine sul Da Bitonto, luglio 1987), avrebbe risolto un importante problema di natura ecologico-ambientale, quello dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani in territorio comunale. Ma già all’epoca una nuova sensibilità al tema dei rifiuti si stava facendo sempre più largo e la necessità di abbandonare la tradizionale raccolta rifiuti era sempre più avvertita. Scriveva così Lello Parise sempre sulla Gazzetta, il 27 agosto 1988: «Cosa succederà quando anche questo “buco” sarà colmo? Il Comune crede di aver risolto il problema dei rifiuti da smaltire. Invece, ha solo rinviato nel tempo la soluzione. Perché prima o poi dovrà trovare altre discariche. È come il cane che si morde la cosa. […] Di qui l’esigenza di accelerare la “politica del recupero”».
Parise denunciava la mancata programmazione in tema di smaltimento rifiuti, non solo da parte dei comuni di Bari e di Bitonto, ma della Regione Puglia, tutti accusati di considerare l’immondizia «come qualcosa di cui disfarsi al più presto».
Non aveva torto, perché quella che doveva essere la soluzione al problema dello smaltimento dei rifiuti, già nel 1991, solamente 4 anni dopo, era diventata una discarica in esaurimento «utilizzata già da troppo tempo, tanto che le tonnellate quotidiane di rifiuti l’hanno riempita al punto che non c’è quasi più posto: tra cinque mesi al massimo non sarà più utilizzabile». Lo scrisse Nicola Fragrassi, sulla Gazzetta del 6 aprile 1991, chiedendosi dove sarebbe stata smaltita, in futuro, la “monnezza” di Bitonto. Interrogativo destinato ad essere d’attualità nei decenni successivi, fino al giorno d’oggi.
Già all’epoca, specialmente quando fu realizzata la seconda discarica di contrada Torre d’Agera, insorsero gli ambientalisti, quelli del circolo Mendes della Lega per l’Ambiente, con una nota a firma di Gaetano Lauta, Nicola Colapinto e Silvio Vacca: «Quella cava è vicina al centro abitato, all’autostrada, alla provinciale per Giovinazzo, alla nostra attuale discarica. Per non parlare, poi, della possibilità, non tanto remota, di inquinamento dei campi che circondano la zona. E scusate se è poco. Alla fine, saremo sommersi dai rifiuti».
Gli oppositori sostennero che la discarica sarebbe stata una bomba ecologica e sottolinearono come l’area avesse un traffico molto limitato e fosse già abbastanza frequentata da autobotti adibite allo spurgo di pozzi neri. Senza contare del fatto che la zona era già abbastanza degradata dagli sversamenti in discariche abusive di liquami e fanghi dall’origine ignota. Fenomeno di cui si stava già occupando la magistratura e la stampa (ne parlò la Gazzetta del Mezzogiorno il 18 gennaio 1990).
La discarica si fece. L’amministrazione dell’epoca, guidata da Michele Coletti, si mostrò favorevole, sulla base dei pareri espressi dal Comitato Tecnico Provinciale e dalle autorità sanitarie, che sostenevano la compatibilità dell’area. E invitò gli oppositori, attraverso le parole dell’assessore all’Urbanistica Nicola Pice, a non farsi prendere dalla sindrome Nimby, «che preferisce lo smaltimento dei rifiuti sempre nel giardino dei vicini» e non nella propria area.
Gli ambientalisti persero la battaglia, ma il tempo diede loro ragione. Nel 2008, la discarica fu sottoposta a sequestro dai carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico, perché la falda acquifera era gravemente inquinata. Nel marzo 2009 la procura della Repubblica ne revocò l’uso chiedendo iniziative celeri per il ripristino ambientale dell’area. Ripristino mai avvenuto, nonostante relazioni e sopralluoghi dell’Agenzia Regionale Protezione Ambientale (Arpa) e dall’Università di Bari, abbiano stabilito la perdita di percolato e la presenza nelle acque sottostanti di ferro, manganese, arsenico, nichel, cromo esavalente e vanadio, tutti elementi potenzialmente cancerogeni.
Passiamo, dunque, a battaglie più recenti. Come quella contro la discarica Fer.Live, in contrada Colaianni. Il progetto, presentato nel 2011, prevedeva la realizzazione di una “piattaforma integrata per il trattamento e il recupero di metalli da rifiuti con bacino energetico secondario”. Il Comune di Bitonto, guidato da una maggioranza di centrodestra, con a capo il sindaco Valla, in attesa dell’AIA (Autorizzazione di Impatto Ambientale) si esprime favorevolmente sulla VIA (Valutazione di Impatto Ambientale). Anche dalla Provincia di Bari giunge un primo parere positivo di compatibilità ambientale.
Importanti dubbi vennnero sollevati sul rilascio dell’AIA e la Provincia, nonostante l’iniziale parere positivo, negò l’autorizzazione, esprimendo perplessità a causa dei possibili pericoli per l’ambiente e della localizzazione in area non industriale, ma agricola.
Iniziò, dunque, la lunga battaglia di associazioni e forze politiche sensibili alla salute della nostra terra. Una lunga battaglia intrapresa da associazioni come Ambiente è Vita e da varie forze politiche, che si credette conclusa nel 2018, quando il Consiglio di Stato respinse il ricorso proposto dalla società Fer.Live e negò definitivamente l’autorizzazione al progetto di trattamento di rifiuti ferrosi. Vicenda chiusa fino al 2020, quando la Fer.Live presentò nuovamente una richiesta di Autorizzazione di Impatto Ambientale, per un progetto che, a detta del proponente, superava le criticità progettuali emerse negli anni precedenti. Gli uffici della Città Metropolitana di Bari ribadirono il parere positivo di Valutazione di Impatto Ambientale, motivato dal minore impatto negativo su acqua e atmosfera e dagli adeguamenti fatti rispetto al primo progetto.
La battaglia delle associazioni e della gran parte delle forze politiche ricominciò e, al momento, non è affatto conclusa.
Altra battaglia che ha visto e vede tuttora impegnati gli ambientalisti locali è quella contro l’inceneritore che la società Newo vorrebbe realizzare nella zona industriale tra Bari e Modugno. Anche su questo fronte la battaglia è ancora aperta e, a fine giugno, approdò in Commissione Europea.
A portare l’istanza a Bruxelles, l’eurodeputata pugliese Rosa D’Amato esponente del gruppo Verdi Europei e l’europarlamentare Mario Furore (M5s), che sottolinearono anche che la presenza di numerosi stabilimenti inquinanti nel territorio di Bari e Modugno aumenti l’accumulo di agenti inquinanti e il loro impatto sulle comunità circostanti. Tema, quest’ultimo, affrontato anche a Bitonto, quando da più parti si è richiesta l’attivazione di un registro tumori, per monitorare al meglio l’impatto dell’inquinamento sulla salute dei cittadini.