1978. L’anno in cui la violenza brigatista raggiungeva il suo culmine, arrivando ad uccidere Moro. L’anno in cui, come abbiamo detto già nel precedente appuntamento, Rino Gaetano canta “Nun te reggae più”, fotografia di un’opinione pubblica stanca e di un disincanto che si fa sempre più largo. L’anno in cui ebbe luogo uno dei primi attacchi alla partitocrazia. Fu, infatti, l’anno in cui i radicali provarono a rompere uno dei cardini su cui si poggiava il sistema dei partiti: quello dei finanziamenti pubblici.
Riprendendo un’avversione ai partiti che ha da sempre accompagnato la storia italiana, i radicali, sostenuti anche da Democrazia Proletaria, provarono ad abolire quanto stabilito con la Legge Piccoli che, approvata nel 1974, su proposta del democristiano Flaminio Piccoli, aveva concesso ai partiti politici finanziamenti pubblici annuali sia per l’attività dei gruppi parlamentari, sia per le attività propedeutiche dei rispettivi partiti, a condizione che questi avessero presentato un bilancio pubblico.
La Legge Piccoli nasceva anche per arginare i finanziamenti privati. Il legislatore, infatti, volle i finanziamenti pubblici, i partiti avrebbero avuto meno bisogno di pericolosi finanziamenti privati, alla base di fenomeni di corruzione, in un periodo, come quello degli anni ’70, in cui, come abbiamo visto, il consenso verso i tradizionali partiti politici cominciava a scemare, insieme ai contributi degli iscritti. E in cui, il progresso nelle modalità di comunicazione imponeva costi sempre maggiori. La necessità di sovvenzionamenti statali per i partiti politici nasceva, poi, dalla consapevolezza delle disparità economiche e sociali tra le basi elettorali dei partiti politici. Le fasce meno abbienti della popolazione italiana, infatti, erano rappresentate da forze politiche che, con le sole risorse economiche proprie, non sempre riuscivano a mantenersi e a sostenere tutte le attività. E, quindi, si volle il finanziamento anche per un principio di uguaglianza di opportunità ed equo gioco di forze tra i partiti. Il Parlamento intendeva, poi, rassicurare l’opinione pubblica italiana che, attraverso il sostentamento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto la necessità di reperire soldi da privati e, dunque, di farsi corrompere dai grandi potentati economici.
Oltre al quesito sui finanziamenti pubblici, l’11 e il 12 giugno ’78 si votò anche per l’abrogazione della Legge Reale, approvata nel ’75 e redatta dal Ministro di Grazia e Giustizia Oronzo Reale (Pri). La norma sancì il forte inasprimento della legislazione penale, in ottica di contrasto ai fenomeni di terrorismo.
I radicali, forti del successo del referendum sul divorzio e del loro ingresso in Parlamento, riuscirono a raccogliere le firme necessarie per diversi referendum, di cui la gran parte furono bocciati dalla Corte costituzionale (abrogazione del Concordato tra lo Stato e il Vaticano, i referendum contro i reati di opinione, i tribunali e i codici militari). Rimasero in gioco solamente i due quesiti già descritti, che videro il mondo politico schierarsi in maggioranza per il “No”.
«Col finanziamento pubblico i partiti sono ormai partiti di Stato. Questa tassa imposta ai cittadini, oltre a diminuire la loro partecipazione politica, serve a sostenere partiti di regime, condizionati dai centri di potere. La legge che il Pr vuole che sia abrogata, invitando a votare “sì” finanzia solamente gli apparati burocratici e i vertici dei gruppi rappresentati in Parlamento. Il cittadino che vuole promuovere un’iniziativa non può fare altro che aggregarsi a uno di questi partiti. La legge fu varata per evitare di punire i reati di corruzione, peculato e concussione e non ha moralizzato nulla» scrisse Maria Adelaide Aglietta, deputato del Partito Radicale.
Ad esprimere le tesi contrarie ai quesiti referendari, per la Democrazia Cristiana, a Bitonto, fu il senatore Vito Rosa, all’epoca sottosegretario alla Marina mercantile: «La Democrazia Cristiana senza favorire o fomentare lo scontro, nel solco della sua tradizionale linea democratica e fedeltà allo stato di diritto, ha assunto nel dibattito elettorale per i referendum, una posizione molto chiara. Il “no” contro l’abrogazione della legge Reale è dettato dalla necessità di non dare segni di incertezza nella lotta al terrorismo. Di fronte alla spirale della violenza, i presidi dello Stato democratico non possono essere indeboliti da esitazioni politiche o vuoti legislativi che renderebbero ancora più spavalda la minaccia eversiva».
Mentre, in tema di finanziamento pubblico, il senatore aggiunse: «Anche in questa materia la logica abrogazionista punta, attraverso l’esaltazione del qualunquismo deteriore, a discreditare la funzione dei partiti costituzionali, additandoli come organismi ostili al rinnovamento democratico e alla evoluzione sociale del paese. Non credo che si possa abusare con tanta disinvoltura della buona intelligenza degli italiani, i quali, dopo oltre 30 anni di intensa partecipazione alla vita democratica, conoscono ormai perfettamente il ruolo e la funzione pubblica dei partiti, quali strumento essenziale per l’esercizio dei diritti civili e politici. In quanto i partiti vanno salvaguardati da ogni condizionamento esterno, per poter svolgere correttamente la loro opera di mediazione e di interpretazione della volontà popolare».
Per la Dc il rischio era che l’appuntamento elettorale potesse trasformarsi in un referendum sull’esistenza dei partiti e in una contestazione sul sistema democratico, con gravi conseguenze di destabilizzazione, come sottolineò il segretario regionale Lupo sulla Gazzetta del Mezzogiorno.
Sul fronte antiabrogazionista si schierò anche il Psdi, che, in un documento, contestando le ragioni del fronte referendario, così spiegò: «I socialdemocratici hanno votato a favore della legge Reale, resistendo alle polemiche contestative che ne avevano accompagnato l’approvazione da parte del Parlamento. Il loro voto era ed è coerente con una scelta di fondo del Psdi, in favore della tutela della sicurezza dei cittadini, presupposto indispensabile per qualsiasi politica di progresso e di sviluppo sociale. Un analogo “no” viene affermato dal Psdi, sul secondo referendum abrogativo, quello relativo al finanziamento pubblico ai partiti politici. In questo caso, […] si tratta di un problema più complesso, più generale, che riguarda direttamente la qualità che vogliamo dare al nostro sistema democratico rappresentativo».
«Solo con una legge che regoli la materia sii può assicurare la funzionalità dei partiti, senza che siano costretti a ricorrere a fonti più o meno lecite di finanziamento. La legge è nata per eliminare tali fonti occulte, garantendo, al tempo stesso, i mezzi per la sopravvivenza ai partiti più piccoli» aggiunse il segretario provinciale Introna.
Il Pci, sulla Legge Reale, mostrò un atteggiamento contraddittorio, aderendo al “no”, nonostante tre anni prima, fossero stati coontrari all’approvazione. Sul finanziamento ai partiti furono a favore del “no”, intervenendo anche a Bitonto con il segretario regionale del Pci Renzo Trivelli. Il segretario provinciale Onofrio Vessia spiegò le ragioni comuniste sulla Gazzetta: «Si tratta di sottolineare il ruolo dei partiti come momenti di organizzazione e di partecipazione delle masse alla vita del Paese. Ad esse va garantita non solo la libertà di espressione, attraverso il voto, ma soprattutto la possibilità di svolgere, con i partiti, le forme di presenza politica e di propagande necessarie a caratterizzarle ed esprimerle. Senza contare, poi, che la legge sul finanziamento pubblico introduce primi elementi di moralizzazione e di controllo contro i finanziamenti occulti. Il Pci è, perciò, per il No».
Il Psi, invece, sempre attraverso Rino Formica, sulla Gazzetta, contestò gli «argomenti banali e qualunquistici» alla base della richiesta di annullamento del finanziamento e il «presupposto non dimostrato che l’introduzione di un contributo statale a favore dei partiti non ha determinato moralizzazione».
Per le stesse ragioni, “no” anche da parte di Partito Repubblicano Italiano («Il finanziamento pubblico garantisce la vita soprattutto delle forze minori», Gorgoni, segretario regionale) e, a destra, da Democrazia Nazionale. Proprio la destra si mostrò, dunque, divisa, con il Movimento Sociale Italiano che diede libera scelta e il Partito Liberale Italiano, contrario alla legge già in Parlamento e già promotore di una prima iniziativa referendaria nel ’74, mai andata in porto. Si schierò, ovviamente, per il “sì” («La legge non impedisce ai partiti di raccogliere altre entrate. Dunque, non è moralizzatrice. Il suo congedo discrimina i partiti più piccoli. Rafforza la dirigenza centrale dei partiti rispetto alla base» Calvario, consigliere regionale).
Tornando a sinistra, infine, per il “sì” fu anche Democrazia Proletaria («Non per qualunquismo. Non siamo contro il sistema dei partiti, né contro il Parlamento come velenosamente insinua la campagna dei partiti della maggioranza governativa. Al contrario: vogliamo che i partiti siano e restino strumenti di democrazia, non nuovi enti di Stato, in un paese che certo non difetta di enti inutili» Giannuli, direzione provinciale)
Il referendum dell’11 e del 12 giugno ’78 vide, in tutta Italia, la partecipazione dell’81,19% degli aventi diritto al voto. Netta vittoria del “no” al quesito sull’abolizione della Legge Reale. Contrario fu il 76,46% (24038806), mentre per il “sì” si schierò il 23,54% (7400619). A Bitonto i votanti furono 23941 (78,97%) e vinse il “no”, con un margine molto ampio: 15400 contro 5360.
Vinse il “no” anche sul tema del finanziamento pubblico. Contrario fu il 56,41% dei votanti (17718478), mentre, per il “sì” votò il 43,59% (13691900). A Bitonto, tuttavia, se pur di poco, furono gli abrogazionisti, con 10710 voti contro 10015.
Il referendum del ’78 fornì una prima dimostrazione della volontà di indebolire i partiti e di un’opinione pubblica che si faceva sempre più ostile ai protagonisti della politica italiana. E di quel sentimento antipartitico ne diede testimonianza, il 10 giugno ’78, la Gazzetta, in un articolo dal titolo “Cosa ne pensa l’uomo della strada” a firma di Domenico Russo Rossi: «La legge Reale pone immediatamente, anche a chi non è informato, la problematica dell’ordine pubblico e per i partiti del “no” c’è l’opportunità di spiegare come e quanto sia importante mantenere tale ordine pubblico. Ma per il finanziamento c’è poco da dire: la gente – di fronte alle argomentazioni di chi ricorda come sia necessario che i partiti siano messi in condizione (anche finanziaria) di svolgere la loro azione, senza essere costretti a ricorrere a finanziamenti occulti – risponde, in certi casi, tentennando il capo. Come a dire: “D’accordo, avrete pure ragione, però in tempi di crisi come questi, mancano i finanziamenti per il Mezzogiorno, le fabbriche si chiudono: se ci sono fondi disponibili, perché darli proprio ai partiti?».
Ma, nonostante una diffusa disaffezione e una propaganda antipartitica sempre più forte, anche a causa della crisi economica che caratterizzò quel decennio, il tentativo, portato avanti dai radicali, fu bocciato dalla vittoria del “no”, segno di una legittimità ancora riconosciuta ai partiti dagli italiani Ci vollero altri quindici anni di retorica antipartitica, affinché il secondo tentativo di abolire i finanziamenti pubblici andasse in porto.