Il 21 e il 22 giugno 2009 gli italiani furono chiamati ad esprimersi, ancora una volta, attraverso lo strumento referendario. Tre i quesiti, il cui obiettivo era l’abrogazione di alcune disposizioni della legge elettorale allora in vigore la 270/2005, detta anche Porcellum. Le disposizioni oggetto del referendum erano alcune norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
In particolare, il primo quesito chiedeva l’eliminazione delle norme che prevedono la possibilità per le liste concorrenti alle elezioni della Camera dei Deputati di collegarsi tra loro e di beneficiare, di conseguenza, del premio di maggioranza. Il secondo quesito voleva abrogare le norme che sancivano la stessa possibilità per le liste concorrenti alle elezioni del Senato della Repubblica. Il terzo quesito, infine, era finalizzato all’abrogazione della possibilità per uno stesso candidato di presentare la propria candidatura in più di una circoscrizione alle elezioni della Camera dei deputati.
Il referendum nasceva dall’iniziativa avviata nel 2007 da un gruppo di promotori, tra cui spiccava il nome di Mario Segni, già tra i protagonisti dei referendum elettorali dei primi anni ’90. Oltre a lui, intellettuali e politici di tutte le coalizioni. Da destra a sinistra.
I sostenitori del sì sostenevano che le norme sotto accusa provocavano effetti distorsivi sull’attribuzione del premio di maggioranza, che così sarebbe andato a liste dal consenso minore. E, quindi, era necessario abolire quelle norme per garantire più stabilità per il governo e diminuire il potere e il numero delle liste minori.
Mentre il fronte del no denunciava effetti distorsivi sulla capacità del parlamento, in caso di vittoria del sì all’abrogazione, di rappresentare tutte le forze politiche. La critica che venne maggiormente avanzata, da destra e da sinistra, ai primi due quesiti referendari era che la vittoria del sì avrebbe portato a trasformare in maggioranza assoluta la più grande minoranza, senza alcun rispetto del principio di proporzionalità. Si temeva che il maggiore partito, anche se avesse ottenuto un basso consenso, si sarebbe garantito il 55% dei seggi.
Il successo dei primi due quesiti, dunque, avrebbe comportato il premio di maggioranza per il partito (e non più per la coalizione) in grado di raccogliere la semplice maggioranza relativa dei voti. Le forze politiche minori si dichiararono quindi contrarie, dando indicazione di non recarsi alle urne o di non ritirare le schede, per far sì che, grazie all’astensionismo, la consultazione raggiungesse il quorum. Questi partiti dal minore consenso, tra cui anche Lega Nord e Italia dei Valori temevano una perdita di riconoscibilità, nel caso in cui fossero stati costretti a formare un listone unico con il partito maggiore del proprio campo.
Il Partito Democratico e il Popolo della Libertà, essendo partiti a vocazione maggioritaria, assunsero una posizione favorevole. Il Pdl, tuttavia, non fece campagna elettorale per non contrariare la Lega Nord in un weekend in cui c’era anche il ballottaggio e, in gara, c’erano candidati comuni da votare.
L’appuntamento referendario, infatti, si sarebbe dovuto svolgere il 2008, ma venne rinviato perchè coincideva con le elezioni politiche. Dopo ulteriori lunghe polemiche sull’election-day, il governo decise che la consultazione non poteva svolgersi insieme alle elezioni europee e lo rinviò di due settimane al fine settimana successivo, in un weekend in cui, oltre al referendum, c’erano solamente i ballottaggi delle amministrative.
Non ci fu un vero e proprio fronte del no. Chi avversava il referendum invitò piuttosto all’astensione, utilizzandola per fini politici. Un fenomeno che proprio in quell’occasione si manifestò in tutta la sua evidenza. L’arma dell’astensione, infatti, è già stata utilizzata ampiamente nella campagna antireferendaria. Facendo forza su un astensionismo fisiologico, gli oppositori ai quesiti referendari privilegiarono l’invito a disertare le urne rispetto al voto negativo. Non senza le polemiche contro questa strategia che, a detta dei detrattori, incitava all’inosservanza verso un diritto dovere come è quello del voto.
Il fronte del non voto era rappresentato da Italia dei Valori, Udc, Radicali Rifondazione Comunista, Sinistra e Libertà, Sinistra Critica, Partito Comunista dei Lavoratori, Lega Nord.
Fu quest’ultimo fronte che vinse. L’affluenza fu debole per tutti e tre i quesiti e, quindi, i referendum furono dichiarati non validi.
I voti favorevoli furono la maggior parte. Il primo quesito raggiunse il 77,63% dei sì, il secondo il 77,68% e il terzo arrivò all’87%. Ma l’affluenza fu solamente del 23,50 per i primi due e del 24% per il terzo. Ben lontana dal 50% più un elettore necessita per far passare un referendum abrogativo.
A Bitonto l’affluenza fu ancora più bassa e si fermò al 16,5% per i primi due e al 16,61% per il terzo. Ovviamente, per quanto potesse importare, anche a Bitonto i sì furono prevalenti (81,77%, 81,83%, 88,80%).
Una tendenza irrefrenabile all’astensione che continuava a crescere sin dalla fine degli anni ’70 e che, ancora oggi, non sembra volersi concludere. Sintomo di una crisi della democrazia che abbiamo già avuto modo di raccontare in questa rubrica anche attraverso le parole di sociologi e politologi.
Una tendenza che in più occasioni ha portato qualcuno a sostenere la necessità di alzare il numero di firme necessarie per indire un referendum, ma, al tempo stesso, di abolire il quorum per impedire che chi non vota possa contare più di chi vota. Ma, d’altro canto, il significato del quorum è quello di impedire che le leggi siano cambiate da una minoranza di persone votanti, decretando, però, conseguenze su tutta la popolazione.