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La Politica, ieri e oggi/Dalle rivendicazioni per i diritti degli omosessuali all’ascesa di Nichi Vendola

Le proteste del movimento femminista aprirono la strada alle battaglie della comunità Lgbt

Michele Cotugno by Michele Cotugno
5 Settembre 2020
in Politica
La Politica, ieri e oggi/Dalle rivendicazioni per i diritti degli omosessuali all’ascesa di Nichi Vendola
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Il tema della libertà sessuale fu uno dei temi cruciali dell’ondata di rivendicazioni nota come Sessantotto. Obiettivo di alcune importanti manifestazioni, proteste era quello di abbattere i tabù che ancora esistevano nella società occidentale ed italiana. E la sfera della sessualità era affetta da molti tabù.

Abbiamo visto tutto ciò già parlando dell’affermarsi del movimento femminista, che, tra gli anni ’60 e gli anni ’70, fu molto attivo nel chiedere l’emancipazione sociale della donna. Emancipazione che non poteva non passare anche dall’aspetto sessuale, affrontando lotte che, quindi, hanno spianato la strada anche ai movimenti Lgbt, sigla che indica lesbiche, gay, bisessuali e transessuali (per comodità useremo l’espressione “omosessuali” per indicare tutte le categorie appena citate).

Se nel 2020 un omosessuale dichiarato come Ivan Scalfarotto può tranquillamente candidarsi alle elezioni regionali pugliesi senza suscitare alcun tipo di scandalo, di clamore, lo dobbiamo soprattutto a quelle lotte che hanno aperto la strada all’accettazione, nella gran parte dell’opinione pubblica, di una categoria spesso discriminata, vittima di pregiudizi.

Ancora oggi, certo, ma ancor di più ieri, quando l’omosessualità era generalmente considerata motivo di vergogna, di condanna sociale.

«Quando ero giovane, se eri omosessuale era meglio se non esistevi, perché rimanevi sempre solo. Oppure ti univi alla solitudine degli altri difettati come te» racconta, nel docu-film “Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis”, l’attore Totò Onnis, nei panni, appunto, di Lorenzo De Santis, soprannominato Varichina, posteggiatore abusivo e omosessuale dichiarato e orgoglioso, nella Bari degli anni ’70 e ‘80.

«Brutto, appariscente e volgare, famoso per le avances sguaiate che rivolgeva agli uomini che gli capitavano a tiro. Era omosessuale e non faceva nulla per nasconderlo. Respinto dalla famiglia, bistrattato dai suoi amanti, zimbello dei concittadini, la sua difesa in una città chiusa e ipocrita com’era la Bari di trent’anni fa era stata fare di sé stesso un personaggio» spiega la scheda del film, che racconta, attraverso varie testimonianze, i suoi tentativi per «non restare ai margini in cui la società voleva relegarlo».

Del resto, già Pier Paolo Pasolini, nel 1965, aveva affrontato l’argomento e i tabù che ne derivavano nel suo “Comizi d’amore”, in cui, tra le diverse domande che l’intellettuale (anch’egli gay) rivolgeva alle persone intervistate in giro per l’Italia, alcune riguardavano anche gli “invertiti”, come erano spesso definiti gli esponenti della comunità Lgbt. Tra gli intervistati da Pasolini, è comune l’idea, figlia di quel tempo, secondo cui l’omosessualità è una malattia e come tale deve essere curata.

Ad aprire l’ondata di manifestazioni, a livello internazionale, fu, nel giugno ’69, in un locale gay di New York, lo Stonewall Inn, un blitz, l’ennesimo di una lunga serie, della polizia, dedita a prepotenze e violenze verso la locale comunità omosessuale. Ma quella notte, tra il 27 e il 28 giugno, gli avventori del locale decisero di insorgere, scatenando una guerriglia urbana che costrinse i poliziotti a ritirarsi. La rivolta di Stonewall fu l’inizio di un’ondata di manifestazioni che dagli Stati Uniti, ben presto, si estesero in Europa e il 28 giugno fu scelto, negli anni successivi, come data per celebrare l’orgoglio omosessuale.

Si diffondono in tutto l’Occidente movimenti che si autodefiniscono di “liberazione” e che rivendicano diritti fino ad allora negati. Dal Gay Liberation Front negli Usa e nel Regno Unito, al Front homosexuelle d’action rèvolutionnaire in Francia. Anche in Italia nacque Fuori (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) che, già dal nome, si poneva come obiettivo quello di spingere gli omosessuali ad uscire allo scoperto, a smettere di nascondersi e a rivendicare la propria identità. A fare coming out, come si direbbe oggi, utilizzando un’espressione inglese entrata, ormai, anche nel dizionario italiano. Obbiettivo a cui si affiancava quello di affiancare la questione omosessuale alle altre battaglie in corso, come quelle degli studenti, degli operai, delle donne, degli ambientalisti e, negli Stati Uniti, delle minoranze etniche.

Ma quale era, fino ad allora, la situazione della comunità omosessuale italiana?

In Italia l’omosessualità fu depenalizzata nel 1889, quando, con l’introduzione del Codice Penale Zanardelli, fu eliminato il reato di sodomia. Tanto che la penisola italiana divenne, a cavallo tra i due secoli, rifugio di tanti artisti internazionali omosessuali.

Ma la mancanza di un apposito reato non significò affatto una generale accettazione della comunità gay, ma era più dettata dal non voler riconoscere che il fenomeno era così diffuso da necessitare l’adozione di norme specifiche. Da parte dell’opinione pubblica restò diffusa l’intolleranza.

Anche il fascismo, sempre per la stessa ragione, per la volontà di non promuovere il fenomeno e, soprattutto, non ammettere l’esistenza dei gay in Italia, non istituì mai alcuna disposizione specifica contro l’omosessualità, al contrario della Germania, che, sebbene fosse stata all’avanguardia per la concessione di diritti dei gay, con l’avvento di Hitler, questi divennero vittime di una feroce repressione. Contrassegnati con un triangolo rosa, furono mandati a morire nei campi di concentramento (si calcola che furono 50mila gli omosessuali uccisi in quello che fu definito “Omocausto”).

Un tentativo di introdurre un esplicito reato fu respinto, nel ’27, con la seguente motivazione: «La previsione di questo reato non è affatto necessaria perché per fortuna e orgoglio dell’Italia il vizio abominevole che ne darebbe vita non è così diffuso tra noi da giustificare l’intervento del legislatore, nei congrui casi può ricorrere l’applicazione delle più severe sanzioni relative ai diritti di violenza carnale, corruzione di minorenni o offesa al pudore, ma è noto che per gli abituali e i professionisti del vizio, per verità assai rari, e di impostazione assolutamente straniera, la Polizia provvede fin d’ora, con assai maggior efficacia, mediante l’applicazione immediata delle sue misure di sicurezza e detentive».

Dunque, mancanza di un apposito reato, non significò affatto accettazione di questa categoria. L’omosessualità, definita “abominevole vizio”, continuò ad essere perseguitata dalla polizia e, spesso, gli omosessuali erano vittime di pestaggi, purghe con olio di ricino, ammonimenti o, nel peggiore dei casi, condannati al confino nelle isole del Mediterraneo, come le Tremiti. A tutto ciò si aggiungeva la condanna sociale che cadeva anche sulla famiglia.

Con la sconfitta dei nazifascisti (a cui anche la comunità gay diede il suo contributo, insorgendo, nel settembre ’43, a Napoli, contro l’esercito tedesco a fianco dei rivoltosi, durante le famose “quattro giornate di Napoli”) e l’avvento della repubblica gli omosessuali continuarono ad essere discriminati e vittime di condanna sociale. Guardate con disapprovazione anche dalla politica. E non solo da cattolici e dalla destra (il Msi provò, senza successo, a far introdurre una legge contro l’omosessualità, nel ’60). Ma anche dalla sinistra. Il Psdi fu promotore, nel ’63, di un altro tentativo, anch’esso fallito, di criminalizzare l’omosessualità. E persino da socialisti e comunisti spesso questa era definita un “vizio borghese”, in una propaganda che aveva come fine l’attacco alla Chiesa e alle forze politiche avverse. Nel ’48 il Pci aveva espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale. Nel ’49, Enrico Berlinguer definì Jean Paul Sartre, sulla rivista della Federazione Giovani Comunisti Italiani, Gioventù Nuova, «un degenerato lacchè dell’imperialismo, che si compiace della pederastia e dell’onanismo», aggiungendo «tra i comunisti non c’è posto per gli omosessuali. Invertiti e pederasti sono solo gli avversari borghesi».

Nel ’50, invece, Togliatti si scagliò contro lo scrittore francese Andrè Gidè, reo di essersi ricreduto sul comunismo, scrivendo: «Vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista».

Ci vollero quasi trenta anni affinchè, negli anni ’80, i comunisti si aprissero alle rivendicazioni dei gay, aprendo la strada, nella propria gerarchia, anche ad attivisti come Nichi Vendola, primo omosessuale ad entrare, nell’85, nella dirigenza del partito, che lo difenderà quando un giornalista sovietico affermò di provare repulsione all’idea di incontrarlo in Russia.

Una svolta politica a cui contribuì anche la stampa comunista. Nel ’75, “Il Quotidiano dei lavoratori” e “Il Manifesto” pubblicarono le prime lettere di lettori gay, pubblicizzarono le riunioni dei collettivi omosessuali che, schieratisi apertamente a sinistra, ruppero con Fuori. Quest’ultima, intanto, grazie all’alleanza con il Partito Radicale, che fece proprie le rivendicazioni (come, del resto, altre battaglie per i diritti civili), ebbe modo, nel ’79, di mandare in Parlamento il primo deputato apertamente gay, Angelo Pezzana, che, tuttavia, dimettendosi una settimana dopo, non si insediò mai a Montecitorio.

Nell’80, dai circoli Arci, nacque a Palermo, l’Arcigay, fondato da Marco Bisceglia, ex prete, che abbiamo già citato parlando del dissenso nel mondo cattolico. Parroco della chiesa del Sacro Cuore di Lavello, in Basilicata, abbracciò la Teologia della Liberazione e fece campagna a favore del divorzio. Ed è proprio dall’Arcigay, oltre che dalla Fgci, che emerse politicamente il giovane Nichi Vendola. Figlio dell’ex sindaco di Terlizzi Francesco Vendola, Nichi si iscrisse alla Fgci nel ’72, per poi arrivare, 13 anni dopo, a far parte della direzione del partito. In quell’occasione, intervistato da Repubblica, disse: «C’era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all’ interno del partito […] Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ‘ 60 e il ‘ 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su “Vie Nuove””. Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, “un’artista”. Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un’eccezione. L’ aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L’ operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. “Su Visconti posso essere d’accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono “scandalosi”. Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su “Vie Nuove” è significativo. Però è vero che l’omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare “i froci”. Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti».

Vendola, dunque, ebbe modo di farsi strada e, candidato nel collegio di Bitonto, nel marzo del ’94 riuscì anche ad essere eletto alla Camera dei Deputati, nonostante, in un primo conteggio al suo rivale bitontino Felice Trotta (Alleanza Nazionale) risultassero più voti. Un riconteggio che, sulle pagine del “da Bitonto”, fu definito “scippo elettorale”.

Nel 2005, dunque, riuscì a farsi eleggere come presidente della Regione Puglia, confermando il suo mandato nel 2010. Così commentò il sito di Arcigay in occasione della sua prima elezione, nel 2005, auspicando che quel risultato elettorale fosse un importante passo verso riforme sociali e civili: «L’ex scugnizzo gay può, come il bambino della celebre fiaba di Andersen, gridare al mondo la pura e semplice verità: che gli italiani siano meno aperti, meno civili, meno liberali del resto d’Europa è solo un alibi di comodo per chi ha paura di riforme sociali e civili che adeguino le forme e le riforme della politica ai desideri di una società moderna e dinamica come quella italiana».

 

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