Astensionismo. Un fenomeno che, oggi, sembra ormai intrinseco nella società e nel modo di concepire la politica. Ad ogni tornata elettorale è ovvia l’assenza di partecipazione da parte di una consistente fetta di popolazione che, per sfiducia, per retorica antipolitica, per qualunquismo o per decisione consapevole e legittima, decide di disinteressarsi e di disertare le urne. Decide di non esercitare il diritto al voto. Una fetta di popolazione che si fa sempre crescente, a seconda del tipo di appuntamento elettorale (minore nelle amministrative, maggiore nei referendum).
Ma non è certo stato sempre così. Anzi, questo esteso astensionismo, prima del 1979, era limitato ad una bassa percentuale di aventi diritto al voto. Neanche il 10%. Tanto da non suscitare, come fenomeno, un interesse da parte degli studiosi, che, fino a quel tempo, l’avevano considerato un fattore ininfluente, naturale, date le percentuali ridotte. Potremmo dire che l’astensionismo, durante il primo trentennio di Repubblica italiana, fu quasi assente. Una condizione che probabilmente fu dovuta ad una voglia di partecipare attivamente alla vita politica, dopo venti anni di dittatura ed una guerra estenuante. Una partecipazione sostenuta anche da un oggettivo miglioramento delle condizioni di vita che la gente stava vivendo.
E infatti, se si consultano i dati della partecipazione elettorale nazionale dal ’48 al ’76, si può facilmente notare come la percentuale dei votanti oscilli sempre tra il 92% e il 94%, per scendere, alle elezioni del ’79, al 90,62% alla Camera e al 90,69 al Senato. La tendenza calante continuò per tutto il decennio successivo, arrivando, nel ’92, all’87,35% (per comodità ci limitiamo alla Camera, ma i dati del Senato non si discostano, ovviamente, da questa tendenza). E proseguendo ancora fino ai nostri giorni. Una tendenza nazionale, certo, confermata anche a livello locale. Se prendiamo i dati bitontini, infatti, dal ’48 al ’76, i dati sulla partecipazione alle urne oscillano tra il 94% e il 97%, per calare, nel ’79, al 91,51%.
Di questo allontanamento dal voto di parte degli elettori, qualche segnale c’era stato anche nelle tornate precedenti, come aveva notato anche la Gazzetta del Mezzogiorno, quando, parlando dei risultati delle politiche, l’11 maggio 1972 titolò: «C’è anche il partito delle schede bianche e nulle».
«Si è ripetuto il fenomeno del ’68, anche se parzialmente ridimensionato – scrive il quotidiano – È davvero inconcepibile che ci siano tanti elettori indecisi, pur fra le molteplici varietà di scelta che la scheda offriva, ancora una volta, a tutti i gusti».
Ma si trattava di segnali non tali da essere riconosciuti e presi in considerazione.
Fu proprio nel ’79, quindi, che la minore partecipazione iniziò a diventare via via più incisiva, più imponente. Con le politiche di quell’anno iniziò una fase discendente che, senza soluzione di continuità, arriverà fino ad oggi, comportando la perdita di circa 20 punti percentuali e diventando un fenomeno strutturale del nostro sistema, oltre ad aggiungersi ad una sempre crescente volatilità dei consensi, che iniziarono a fluttuare grazie alla sempre minore fedeltà degli elettori ai partiti politici.
Tutte conseguenze, queste, della crisi della politica che, dagli anni ’70, iniziò a manifestarsi in Italia. Dopo un decennio di sconvolgimenti economici, monetari, politici, sociali, quell’aura di sacralità che aveva caratterizzato l’esercizio del voto sin dal dopoguerra inizia a spegnersi, sotto i colpi di un crescente clima di antipolitica, delle difficoltà che i partiti politici stavano manifestando nel rincorrere i rapidi mutamenti in atto nella società e per le tante altre ragioni che abbiamo avuto modo di vedere nelle precedenti puntate di questa rubrica.
Gli italiani iniziarono a mal sopportare quelli che, per un trentennio, erano stati i principali attori della vita politica italiana, i partiti di massa e lo dimostrarono anche in questo modo: disertando sempre più le urne. O iniziando ad esercitare un voto più instabile, fluttuante tra le varie sigle. Soprattutto con la nascita di nuove forze politiche non più solamente nate da una base ideologica, come i movimenti regionalisti del Nord Italia, come le liste civiche che iniziano ad affacciarsi nei comuni, come i cosiddetti “single-issue party”, quei partiti, cioè, non più ancorati ad un variegato insieme di valori, ma su un singolo tema che può essere condiviso anche trasversalmente.
L’abbandono delle intense esperienze di partecipazione, poi, oltre ad allontanare molti militanti dai partiti, spinse anche questi ultimi, mossi dalla voglia di governa, verso una convergenza al centro che spingerà ancora di più la tradizionale base dei partiti politici ad allontanarsi, creando così una reazione a catena che indebolirà sempre più i partiti politici.
Una crisi politica che continua nel decennio successivo, in cui quell’intensa stagione di partecipazione che, nel bene e nel male, caratterizzò gli anni ’70, fu sostituita da una stagione in cui gli italiani, stanchi delle estreme tensioni, delle divisioni, della violenza, del clima sociale pesante, reagirono lasciandosi alle spalle quell’impegno politico, per abbandonarsi ad una stagione di disimpegno. Una stagione di leggerezza che, agevolata dalla nuova ondata mondiale di neoliberismo, si caratterizzò per una diminuzione della violenza, certamente, ma anche per una rinnovata voglia di divertimento, di spensieratezza. Fattori non certo negativi, che però fanno da contraltare per un aumento di mode effimere, per un imbarbarimento della politica sotto i colpi di partiti personali, convention e spettacoli che sostituiscono sempre più i tradizionali congressi, corruzione crescente e debito pubblico in salita. Tanto che qualcuno, riferendosi agli anni ’80, parla di “decennio dell’effimero”, di “inizio della barbarie”.