Un
po’ tutti noi ci sentiamo il centro del mondo. Se, poi, deteniamo una fetta di
potere, grande o piccola che sia, ancora di più.
Sennonché dimentichiamo che la
vita è sempre più grande di noi, perché ci tiene tutti.
Prendiamo quel che è
successo l’altra sera nella massima assise cittadina (figuratevi la minima come
sarà). Un rappresentante insigne della polizia locale ha invitato un
giornalista a mettere via la telecamera, il ferro del mestiere.
Il diritto/dovere
di cronaca silenziato non si capisce bene perché.
A chi ha ordinato un simile
gesto sarà parsa cosa buona e giusta.
A chi è all’opposizione s’è palesata
un’occasione ghiotta per stracciarsi le vesti e gridare allo scandalo.
E giù la
retorica dell’articolo 21 della Costituzione et similia.
Ma
dov’era la verità?
Dov’è la verità?
Quasi
in contemporanea al consueto, mesto teatrino di Palazzo Gentile, sul palco del Teatro Traetta un superbo Silvio Orlando portava in scena
un’opera colma d’amaritudine firmata dall’acuta penna di Denis Diderot, “Il nipote di Rameau”.
Una
sdrucita parrucca settecentesca sul
capo, il protagonista, cinico, menzognero e sfrontato, tuona con magniloquenza
prendingiro tutta l’essenza della miseria umana: “Lecchini, lecchini, lecchini”.
E
il tarlo della meditazione comincia a farsi strada negli spettatori.
Ad
illustrare il concetto con dovizia di mimici particolari provvede l’attor comico.
L’orbe
terracqueo è retto (participio non casuale di passato prossimo molto presente)
dal rapporto biunivoco e costante tra potenti e adulatori.
Gli
uni traggono fama e compiacimento dalle papille gustative dei secondi
striscianti sui di loro glutei ed i secondi vivono mercé quell’arte difficile e
pur diffusissima. Tentazione alla quale, per vero dire, tutti, quasi
indistintamente, abbiamo ceduto, almeno una volta nella vita.
Ecco,
così si vorrebbe che la stampa ognora fosse. Megafono di chi comanda.
In
servizio permanente effettivo del padrone del vapore. Che rampogna il cronista
se appena non la pensa allo stesso modo e persino se lo ha ritratto in foto in
una certa postura invece che in un’altra.
Questa
è la realtà.
Proviamo
tutti quanti a decentrarci dal nostro smisurato ego e riflettiamo. Mettiamoci
nei panni altrui.
A
chi basta avere una telecamera o un taccuino in mano per sentirsi leienestriscialanotiziamarcotravaglioe a chi assiso sopra una cadrega sente di poter far valere sugli altri la vitae necisque potestas, urgerebbe un
bel bagno d’umiltà.
Così,
solo a posteriori (eh sì, a posteriori…), si legge in un lacrimevole comunicato che il cronista,
colpevole unicamente di fare il proprio dovere, stavolta non era provvisto di
regolare richiesta e che sarebbe ora di varare un regolamento circa la
pubblicità delle immagini del consiglio comunale.
Complimenti
alla trasparenza.
Ohibò,
e finora come s’era proceduto?
Violenza
è anche ricevere inviperite telefonate all’alba oppure vedersi ferire da iniqui
strali all’acido prussico in conferenza stampa, magari dinanzi a risolini
compiaciuti di colleghi.
Già,
e la solidarietà in quel caso?
E,
allora, a chi si crede umbilicus mundi,
per capire cosa in realtà è colui che esercita in maniera prevaricante il
potere, senza scomodare “l’immagine passeggera presa
in un giro immortale” di ungarettiana memoria, ci lasciamo soccorrere ancora
dalla lezione dell’Orlando scherzoso.
Prendete
il nome dello zio del suo personaggio, Rameau, metteteci una “t” davanti e
immaginatelo pronunciato secondo una favella franciosa mista a vernacolo
barese.
Tutto
qui.