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Home » Una poesia, una rivoluzione. “Cavalli” di Gjeke Marinaj nella splendida lettura di Angela de Leo

Una poesia, una rivoluzione. “Cavalli” di Gjeke Marinaj nella splendida lettura di Angela de Leo

Pubblicata trent'anni fa sul quotidiano albanese "Drita", fu il simbolo della lotta per la libertà

Angela De Leo by Angela De Leo
20 Agosto 2020
in Cultura e Spettacolo
Una poesia, una rivoluzione. “Cavalli” di Gjeke Marinaj nella splendida lettura di Angela de Leo
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Al mio fraterno amico d’anima e poesia, Gjeke Marinaj.

I giorni, che si moltiplicano sul nodo scorsoio della paura, mi lasciano dentro un’ansia di coraggio da ritrovare e così ritrovo i tuoi versi e quel tuo grido di dolore, e la tua coraggiosa poesia

“CAVALLI”

del 19 agosto di trent’anni fa, che si fece eco senza fine su , il Quotidiano Albanese di cronaca a carattere nazionale.

A una prima lettura, ai più sembrò una semplice poesia in difesa degli animali e, in particolare, degli stupendi cavalli dallo sguardo fiero e dalla cavalcata elegante e maestosa, purtroppo in cattività.

In realtà, si trattò di una feroce satira politico- socio-culturale da parte tua sulle condizioni del tuo popolo. Fu un coraggioso atto di ribellione al regime comunista da parte di un audace (e forse incosciente) venticinquenne, poeta e giornalista non ancora famoso.

A distanza di trent’anni la tua poesia, fratello mio, è ancora forte e viva e si fa ancora canto di ribellione e preghiera allo stesso tempo.

La stralcio da quella meravigliosa silloge di poesie, Schizzi d’immaginazione, edita dalla SECOP edizioni e te ne dedico le mie emozioni di rimando.

CAVALLI di Gjeke Marinaj

Per tutta la nostra vita siamo in viaggio,

Guardando sempre avanti,

Quel che c’è dietro di noi abbiamo paura di saperlo.

Tutti noi non abbiamo un nome,

Cavalli, ecco come ci chiamano.

Senza piangere,

Senza ridere,

In silenzio,

Ascoltiamo,

Mangiamo quel che ci danno,

Andiamo dove ci dicono,

E nessuno di noi è una gran testa.

Chi era il cavallo di un re

Aveva un grado più alto;

Chi era il cavallo di una principessa

Era sellato d’oro;

Chi era il cavallo d’un contadino

Era sellato di paglia;

Chi gli disobbediva

Dormiva sempre all’addiaccio:

Ma con gli umani, sempre cavalli restiamo!

Stupendo inizio con un “Per” che indica già di per sé un avvio in movimento, riguardante il “viaggio” di tutta “la nostra vita” con la determinazione a raggiungere una meta. Ognuno dovrebbe averne una propria, prefiggersi uno scopo, una missione che dia senso a tutto il viaggio. Ma la realtà è diversa. È possibile stabilire la meta se non si ha paura del passato, che è un possibile “futuro capovolto”: è dalla esperienza vissuta da noi e dai nostri antenati che occorre ripartire per continuare sul loro esempio oppure per ribellarsi alla tradizione e al silenzio e rinascere e realizzare un futuro migliore. Il timore di ricordare un passato difficile diventa ostacolo alla costruzione di un futuro diverso.

Ed ecco il disvelamento: i protagonisti di questi versi, che urlano al cielo una storia amara di soprusi, non hanno un nome: sono semplicemente cavalli. Animali eleganti, nobili e fieri nel loro andare, ma non in questo caso. I due anaforici quanto suggestivi versi che seguono, brevi come uno sperdimento, definiscono un vuoto, una deprivazione: “Senza”

Senza piangere

Senza ridere.

A questi cavalli non è concesso avere lacrime o risate. Ossimoro meraviglioso ad indicare la gioia e il dolore: i punti estremi di ogni sentimento, in cui si snoda la vita della mente e del cuore di ciascun essere umano.

Al nulla che il “Senza” definisce segue l’inevitabile silenzio dell’asservimento. Piegata/piagata è la volontà di reagire. Il silenzio, in questo caso, non prelude al rumore del mondo o alla parola di ribellione o al canto della sfida e della vittoria. E neppure alla preghiera di gratitudine e di ringraziamento. Qui anche il silenzio è assenza di qualcosa di vitale che indica movimento e pensiero, libertà di essere e di andare per perseguire la meta e realizzarsi.

Qui c’è solo un chinare la testa al volere altrui, del più forte, di chi esercita il Potere con coercizione e violenza. E impedisce di pensare. È concesso solo di eseguire compiti con mezzi e ruoli diversi, ma estraniandosi da sé per assecondare il potente di turno, fosse un re o una principessa.

Ed ecco che improvvisamente i versi scoprono i verbi all’imperfetto. Il presente cede l’azione a un passato senza tempo, al “c’era” delle fiabe, che a volte sanno essere crudeli e non assicurano il lieto fine se non dopo la fuga e l’allontanamento del protagonista con relativa sfida e combattimento contro l’antagonista, fino alla sua morte.

Il primo (il re) consentiva al cavallo di avere un “grado più alto” nella sua schiavitù, e la seconda (la principessa) di mostrare “una sella d’oro” e fingere una ricchezza che non possedeva. Ma c’era anche il cavallo del contadino che era “sellato di paglia” e, se disubbidiva, veniva mandato fuori a morire al freddo e al gelo.

E qui d’improvviso il tempo del verbo cambia nuovamente: il “c’era” diventa presente e attualizza la condizione di schiavitù dei cavalli. Ma, se nelle fiabe la fine del combattimento, che decretava la morte dell’antagonista e il ritorno dell’eroe a casa, permetteva a quest’ultimo di concludere la fiaba con il lieto fine, questa poesia non è una fiaba e non può avere il lieto fine se l’ultimo verso si copre di amara e spietata rassegnazione: “Ma con gli umani sempre cavalli restiamo!”.

E il punto esclamativo sancisce il “grido di dolore” del poeta di fronte ad una realtà che urla la disumana condizione di asservimento dei “cavalli”, suoi compatrioti, al potere del Regime comunista nella sua amatissima Patria, l’Albania.

Gli Albanesi, allora, rimasero increduli, ma in poche ore comprarono tutte le copie del giornale.

Molti si affrettarono a scrivere quei versi su pezzettini di carta per diffonderli dappertutto, fino a farne un inno di protesta durante le numerose manifestazioni antigovernative, che di lì a poco si accesero come fuoco controvento per incendiare cuori e volontà.

E tu, mio caro Gjeke, diventasti in brevissimo tempo l’eroe dell’Autonomia e della Libertà Albanese. Ma anche il ragazzo costretto (e determinato) a fuggire di notte per evitare il rischio tangibile di essere impiccato come altri poeti dissenzienti prima di te. Non più l’eroe di una fiaba a lieto fine, ma l’esule di una storia vera in un nuovo percorso, difficile e tortuoso quanto solitario e disperato, tra straniere genti. Qualche volta, però, anche la storia offre ai suoi ardimentosi protagonisti un lieto fine.

Tu, Gjeke Marinaj, ne sei oggi la dimostrazione più bella e vera e gloriosa. E tutto il mondo ti applaude come Poeta raffinato, Ideatore della teoria filantropica e filosofica del Protonismo che fa di te, meritatamente, l’Ambasciatore di Pace tra tutti i Popoli del nostro Pianeta.

Grazie, mio caro, per il dono di tutto questo che oggi è per me un nuovo inno al mai sopito coraggio della Parola.

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