Campeggia da secoli presso Porta Matera, ad Altamura, un bassorilievo che la tradizione orale (non c’è quella scritta) definisce “le cosce di Pipino”.
Dovrebbe essere la macabra testimonianza della punizione inflitta a Giovanni Pipino, signore di Altamura e Minervino, dal re di Napoli per la sua ribellione. Infatti, si narra che nel 1357, dopo averlo fatto impiccare ad un merlo del castello (o delle mura) di Altamura, esibendolo come un grottesco pupazzo con in testa una corona di carta e sul petto una scritta sarcastica, il sovrano abbia ordinato che il cadavere di Pipino fosse squartato da quattro cavalli ed i suoi pezzi fossero appesi alle quattro porte della cinta muraria cittadina.
Nel tempo, a perpetuare il ricordo di quella punizione esemplare, si affisse un bassorilievo, raccapricciante attestazione di damnatio memoriae e di docta ignorantia, due fattori di solito sempre abbinati nel corso della storia.
Comunque, se non è sicuro che quello oggi visibile accanto a Porta Matera sia il manufatto originale, a chi la guardi con la dovuta attenzione, è, però, chiaro che nella lastra superstite sono scolpite due zampe di animale e parte del dorso da cui è stata spiccata la testa. Lo confermano, a nostro avviso, la pelosità e la rigida linearità dei due arti, che terminano con piedi animaleschi. Inoltre, l’abbreviazione incisa sulla lastra, G. P., non può significare Giovanni Pipino, come si vuol credere, perché all’epoca del bassorilievo, di fattura tardo medievale, i nomi propri non si abbreviavano con le sole iniziali ma, più probabilmente, significando Gloria Patriae (a gloria della città) o Gloria Populi (per gloria del popolo) attesterebbe che nella lastra frammentaria sia scolpita una figura simbolica, forse un grifone.
Sarà stata, poi, la docta ignorantia ad associare a quelle parti anatomiche animali il “presunto” supplizio inflitto al cadavere del ribelle signorotto altamurano. Diciamo “presunto” perché nei pochi documenti ufficiali a nostra disposizione non c’è traccia dello squartamento postumo subito dal Pipino, a quanto pare, comunque, piuttosto inviso al popolo.
Che, forse, quella orribile punizione se l’è inventata, avviando così una sorta di damnatio memoriae, poi, passivamente accettata nel corso dei secoli. Se così stanno le cose, ci meraviglia non poco che, in tutta la vicenda, siano state trascurate opere quali La vita di Cola di Rienzo (edita a cura di Zefirino Re Cesenate nel 1828) o La cronaca di Matteo Villani o, in ultimo, I Discorsi delle famiglie estinte forastiere (1641) di Ferrante della Marra, nelle quali non si accenna allo squartamento del cadavere di Pipino; ma solo ne Il conte di Minervino, una storia del Trecento (1846) di Carlo de Cesare, si narra che, dopo i rituali tre giorni di esposizione al pubblico ludibrio, esso “fu fatto a pezzi” (non squartato da quattro cavalli, attenzione!). Tuttavia, si tratta di un romanzo, credibile fino ad un certo punto.
Come sia nata, poi, la notizia dello squartamento crediamo si possa spiegare con l’atmosfera medievale che avvolge le vicende e la personalità di Giovanni Pipino, cavaliere arrogante e superbo, infido e sleale come Gano di Maganza, personaggio del cosiddetto Ciclo Carolingio, famigerato traditore di Orlando, odiato soprattutto dal popolo. Costui nel poema dedicato ad Orlando (una chanson de geste) subisce una pena cruenta ed orribile come lo squartamento ad opera di quattro cavalli. Condanna che in Italia, però, non sembra sia stata mai praticata perché “si preferivano” il rogo o l’impiccagione per gli infami, gli eretici ed i sovversivi.
È logico dedurre che, se tale condanna fosse stata davvero applicata al Pipino, personaggio molto conosciuto nell’Italia centro-meridionale, sarebbe certamente giunta memoria scritta sino a noi. E non ci sarebbe stata la necessità di riciclare un frammento lapideo travisando anche l’anatomia dell’animale in esso scolpito.