“Strada”, in
albanese, si pronuncia “rruga”. Chiedere ai cittadini albanesi un indirizzo è cosa
vana, perché non conoscono la toponomastica. Se ti perdi, in questo Paese, per
ritrovare la strada corretta devi cercare di raggiungere un punto di riferimento.
Qualunque
esso sia: una scuola, una statua. La dimora di qualche importante uomo politico
del passato, l’ospedale. Chiedi e ottieni risposta. E ritrovi la via. Ma se c’è
una cosa che davvero riempie di emozioni il tuo cuore randagio è perdersi e
continuare a girare a zonzo senza una meta precisa. È lì che scopri la bellezza
del posto straniero che ti ostini ad attraversare.
Così capita
che il viaggiatore si ritrovi nel distretto di un qualche villaggio, magari a
nord della Capitale, sicuro della propria direzione, salvo poi scoprire che è completamente sbagliata. Quando succede, inizialmente si preoccupa, è fisiologico, specie se sa che l’ultimo autobus è appena partito e che, nella
nottata, non ci saranno più corse che lo riporteranno a casa.
Poi però si
rende conto di avere sotto mano tutto quello che occorre per andare avanti
senza difficoltà: uno zaino in spalla, qualcosa, qualunque cosa, a guidare il
suo cammino. Tipo la consapevolezza di quanto siano belli gli sguardi degli
stranieri che si incontrano, che “restano umani” nell’aiutarsi vicendevolmente.
Lo sguardo
di Bertjion è davvero così: umano. Siede al tavolino di un bar. Fuma sigarette
artigianali. Sorseggia una birra, sembra felicemente solo. Risponde con
sgomento alla domanda del povero, sprovveduto viaggiatore, rivelando che non ci
saranno autobus per la Capitale fino all’indomani. Lo invita al tavolo e il
viaggiatore accetta.
Bertjion
vive poco lontano di lì. La sua casa, dice, è piccola. Ma offre riparo a sei
persone: sua moglie e quattro figli. Tre donne e un ragazzo. Due di loro
sposate, vivono a sud, in un villaggio in terra di Saranda, dove dicono che le
spiagge siano bellissime, il pesce sempre fresco, l’inverno calmo, freddo e
silenzioso, l’estate divertente e frizzante.
Una ragazza
sta finendo, invece, gli studi in Architettura a Tirana. Il ragazzo porta
avanti la attività di famiglia: quel bar solitario teatro dell’incontro. Il
primo giro di rakia, la deliziosa grappa albanese, un distillato derivato dalle
prugne, è offerto proprio da Bertjion. Che in cambio chiede al viaggiatore solo
il breve riassunto della sua vita.
Ovviamente,
il viaggiatore lo rivela con puro piacere. E mentre il sentore fruttato del
superalcolico si fa sempre più deciso, il tempo si dimezza, corre lungo istanti
brevissimi. La piacevole sensazione di sentirsi a casa senza un tetto sulla
testa, senza coperte sul letto, ma solo la brezza autunnale che, nelle ore
notturne, ritrova la sua personalità.
Poi, la sua storia,
quella di Bertjion. Già sentita innumerevoli volte, ma sempre così nuova e
bella da scoprire: la fuga dalla guerra, tra le braccia della sorella Italia,
correndo lontano da una dittatura sporca, infame, che usava le istanze del popolo
per opprimerlo senza pietà. La storia, appresa nel cuore della notte da un uomo
che ha lavorato tutto il giorno e trova la forza di insegnartela, ha un fascino
senza limiti.
Il tempo si
dimezza, dicevamo. Il viaggiatore dimentica le turbolente frustrazioni di una
notte insonne passata in mezzo alla via, da qualche parte, nei Balcani.
Poi, la
mattina arriva, portandosi dietro la luce del sole e, al parcheggio degli
autobus, i viaggiatori, i minivan, I taxi. Una stretta di mano. Finalmente si
torna a casa. O purtroppo.