(Fischio) Taxi!!! Entri, ti siedi. “Hey sister where are you going?“.
Non ti viene di dire “Ciao fratello nero!“, ma solo “Hello brother, how are you? I’m going to …”. Washington è il meraviglioso diamante nero dell’America, intagliato meglio di qualsiasi altro gioiello dei dintorni.
“Nero” non è offensivo, ma un dato di fatto e soprattutto …i bellissimi occhi scuri e profondi ti rapiscono così tanto che dimentichi di osservare la differenza di melanina nella pelle.
Nero è mio amico.
È “my bro”.
Lui è libero: canta per le strade, ti fa entrare gratis nei musei, ti tiene puliti i monumenti, ti passeggia accanto salutandoti, adora che apprezzi la sua vita e ti coinvolge. Questa è la cultura di Washington.
Il superamento dei taboo: il presidente più potente della terra di colore, l’umiltà dei costumi, il senso della misura, il rilancio della cultura nella gratuità dei siti di interesse, la pulizia dei parchi, il risparmio nelle luci soffuse, il divertimento sano di Georgetown, il sorriso di una ragazza tedesca albina che abbraccia il suo scurissimo fidanzato sudamericano.
Washington è agli antipodi rispetto a New York. Si estende in orizzontale, mai nessun palazzo deve superare l’altezza di Capitol Hill, che divide le due camere parlamentari. Qui c’è storia, una storia dolente, una storia che prova anche gli animi più forti.
Presidenti che hanno combattuto per offrire al loro popolo la più grande legge universale: l’Unione. Ma soprattutto giovani ventenni che in massa si sono sacrificati per la propria patria, arruolatisi in America e provenienti da tutto il mondo, anche dall’Italia.
E i loro nomi sono lì, sotto dei numeri incisi, nelle lapidi bianche che punteggiano i prati del cimitero di Arlington.
E qui, fra i giovani coraggiosi, militari e ufficiali di marina, nessuna segnaletica particolare e nessun cartello grossolano indica la presenza di due bare vicine.
Loro sì che hanno fatto la storia. I nostri genitori sanno che significa aver vissuto il ’68. John e Jacqueline Kennedy sono protetti solo da una fiammella perenne che ricorda la loro esistenza. E scende una lacrima.
Si apre un ricordo.
E passa un aereo sopra la testa, un po’ di paura, un po’ di commozione.
Washington – con i suoi “memorials” dedicati ai più famosi e incisivi presidenti degli Stati Uniti – ti fa entrare nell’ottica di un rapporto nuovo fra la politica e il popolo. Un legame alla pari, quello fra me cittadino e il mio interlocutore che agisce per il mio bene, che non crede nello spreco, che risponde come me alle regole perché la legge è uguale per tutti.
Washington ti restituisce il senso della lotta comune per un intento unico; ti trasmette il senso della grandezza e dell’imponenza che ti riporta per un attimo ad Atene e a Roma; si mostra nella sua classicità, che diventa segno di un ordine interiore e profondo.
Washington, così come è descritta, è l’apoteosi della precisione, nessuna sbavatura, nessuna zona d’ombra.
Il modello della città ideale, eppure esiste.
Se riuscissimo a fare un equo scambio, prendendo da loro lezioni di civiltà e vita, visto che negli anni loro hanno emulato la nostra arte in lungo e in largo, riusciremmo già ad essere avanti anni luce.