In tempi in cui un senatore della Repubblica
non trova di meglio da fare che affermare che un ministro, solo perché di
colore, gli “ricorda un orango”, forse il problema non sono gli stranieri, ma
siamo noi italiani. Di questo ha parlato ieri sera, nell’atrio della Biblioteca
comunale, il giornalista Giulio di Luzio,
durante l’incontro per la presentazione del suo ultimo libro “Clandestini.
Viaggio nel vocabolario della paura”, organizzato dalla Libreria del Teatro. A dialogare con lui Lizia Dagostino, psicologa ed esperta di formazione, che non si è
limitata a dare tutta la scena all’autore, ma ha costruito con lui un dialogo
fitto e vivace, coinvolgendo anche i (troppo) pochi intimi intervenuti.
Biscegliese, di Luzio ha scritto per
Repubblica, Liberazione e Corriere del Mezzogiorno e, dopo “Brutti, sporchi e
cattivi” del 2011, è al secondo libro sul tema dell’immigrazione.
Un argomento delicato e, secondo di Luzio,
mal-trattato in un’Italia in cui la politica e l’informazione alimentano la
tendenza a identificare lo straniero, il diverso, unicamente “con chi ruba, puzza, sporca e toglie il
lavoro”. Ovvero con qualcuno da temere. E lo fanno attraverso un lessico
basato – denuncia l’autore – sul concetto di esclusione. “Extracomunitario – ricorda– nacque come aggettivo che indicava la
non appartenenza all’allora Comunità Europea. Poi è diventato un sostantivo e
oggi si riferisce a una categoria sociale che si tende a identificare con chi
emigra nel nostro Paese. Ma anche giapponesi e svizzeri sono extracomunitari:
solo che noi non li chiameremmo mai così”.
È proprio contro queste parole, il “vocabolario
della paura” del titolo, che l’autore se la prende. Le smonta, le seziona, le
analizza e le mette in relazione con fatti di cronaca in cui è evidente come in
Italia il modo di concepire il fenomeno immigrazione sia strettamente legato al
concetto di paura. Storie metropolitane in cui, appena è stato possibile
addebitare il delitto allo straniero di turno, non si è persa occasione per
fare passare l’idea secondo cui il criminale è qualcuno diverso da noi.
Vittime predestinate di tale sistema sono i giovani“che formano le loro idee sulla base di
queste parole ansiogene che portano a temere una sorta di invasione nemica”.Mentre la politica, “che, dalla prima
ondata migratoria degli anni 70, in 40 anni di democrazia occidentale, non è
ancora riuscita a garantire il diritto di voto agli immigrati, non fa altro che
vedere nell’immigrazione un problema di ordine pubblico”.
La speranza per il futuro, dice di Luzio, sono le
agenzie formative: la Chiesa, i genitori, gli insegnanti che dovrebbero educare
i giovani a partire dalla nostra storia di popolo migrante. Perché chi deve fare della diversità
un’opportunità siamo noi. A dispetto del titolo, sottolinea la Dagostino, “non è un libro che parla dei clandestini,
ma di noi”.