L’aereo con qualche istante di ritardo e poi sbuca
dalla tenda rossa del Teatro Petruzzellisorridendo e passando tra il pubblico del Bari
International Film Festival che lo acclama.
È Sergio
Castellitto attore, regista e sceneggiatori tra i più noti e validi del
panorama italiano.
Una conversazione lunga intervallata di momenti
ironici, aneddoti, curiosità, consigli affrontata con il giornalista Franco Montini.
Un percorso attraverso la sua carriera e la
soddisfazione di fare l’attore o l’artista:«Non
faccio il regista per insoddisfazione di essere un attore (ho fatto ben 70
films), sono piuttosto un artista – principia Castellitto –. Ma la
paura è il motore di un artista, benzina dell’inadeguatezza davanti all’ostacolo.
Bisogna diffidare da chi ha troppe certezze, starà scimmiottando qualcosa».
Artisti si nasce o lo si diventa? «Desiderare di esprimersi è anche
entusiasmante disperazione – continua l’attore -. Quando sei giovane vuoi rompere i vetri e il talento,quello strano
olio che ti scivola tra le mani, e io ho fatto l’attore di teatro. Tutto nasce da una vocazione, da una
chiamata, recitare vuol dire condividere».
Sergio Castellitto ha frequentato l’Accademia Nazionale
di Arte Drammatica durante la giovinezza ma quanto ha contato nel riconoscere
il suo talento? «Non sono mai stato un
accademico, il neorealismo italiano ci insegna che il talento può essere ovunque. È un gioco: bisogna riconoscerlo,
spesso lo fanno gli altri più che tu stesso. Bisogna rimanere continuamente
studenti».
I primi esordi sono stati al fianco di Marcello Mastroianni. «Quella è stata come una scuola di guerra.
Ricordo che dovevo far passare una medaglia davanti al volto in primo piano di
Marcello ma mi tremava la mano: Mastroianni al che, fuori campo, mi tenne il
braccio. Questo era lui».
Non solo grande cinema (con Scola, Bellocchio, Tornatore,
giusto per citarne alcuni) Castellitto è anche Tv e Fiction: «I
privilegi si conquistano sul campo, non mi sono mai arreso e sono sempre
andato in cerca del lavoro. Quando hai da interpretare “Fausto Coppi”, puoi conoscere tutto dai documentari, al suono della
sua voce, e il tuo modo di lavorare cambia, ma cambiano anche i nemici. Ti dici
cosa significa pedalare, chissà a cosa si pensa… – racconta il regista
italiano – Cominciai ad andare in bici, presi
una salita, d’estate a 38 gradi, e vi posso assicurare che in quel momento non pensi a Schopenhauer, ma se ce la fai
al prossimo metro. Per “Rossini! Rossini!”, con Monicelli, invece, non c’era
documentazione ma c’era la sua musica, mi aiutavo solo con quella».
Altra storia è stata per i due personaggi religiosi
interpretati dall’attore: «Padre Pio è stata, senza dubbio, l’esperienza
più forte: era un uomo che incideva oltre che sulla spiritualità anche sulla
psiche dei fedeli. Mettevo i bigodini nelle scarpe, una fascia con i pesi sull’addome
per essere il dolore, capire cosa significasse. Ricordo che andai dal barbiere
a tagliare i capelli e quando lui mi chiese cosa avessi dovuto fare e io
risposi “Padre Pio” lui mi fece: “Dottò,
una cosa sola, la salute!”. L’interpretazione di Don Milani, rappresentava il controcampo: c’era una visione
diversa, borghese, colta a differenza di Padre Pio che nasce dalla terra e
diventa asceta. Per Don Milani c’era ragionamento, intenzione, intelletto».
Recitando per l’attore è nato anche l’amore. È stato in
scena a “Le tre sorelle” di Cechov che ha conosciuto sua moglie, la
scrittrice Margaret Mazzantini.
«Mi
sono innamorato di mia moglie come attrice: nei viaggi che facevamo assieme
abbiamo scoperto di essere diversi ma di avere fini comuni, tanto che abbiamo
fatto quattro figli. Siamo la sentinella l’uno dell’altra, non siamo andati mai
via».
A proposito di figli l’attore ha dichiarato che proprio
in “Alza la testa” di Angelini che ha
rivalutato il rapporto con i suoi pargoli, e in “La stella che non c’è” di Amelio che sviluppa l’idea del sogno. «Il sogno ce l’hanno tutti, il diritto di
averlo appartiene anche agli anziani davanti alla telecamera. Perché il cinema fa questo: imprime la
memoria».
Ma cosa fa scegliere il progetto da realizzare?
«La
commedia la scelgo perché fa ridere e aiuta ad essere spensierati, i film
drammatici perché sono bisturi per l’anima e il cinema si fa per due motivi: ridere e piangere».
La mattina è trascorsa con la visione del grande
capolavoro di moglie e marito: “Non ti muovere”.
«La
scrittura visiva, evasiva, quasi odorosa ed è nata spontaneamente. Leggevo le
pagine calde del libro di Margaret, ma ho scritto la sceneggiatura da solo – spiega
Castellitto -. Dentro ci sono il sangue,
i conflitti, la passione in cui è nascosto l’amore. È stata un’opera alta e
popolare sia per la letteratura che per il cinema. La scena finale di Margaret
che compare nella scena rappresenta lo scrittore che incontra i suoi
personaggi, e loro il fantasma del loro artefice».
L’attore romano non da per nulla l’impressione, poi, di
essere un personaggio costruito, fatto di solo successo e privo di umiltà:«Il
successo bisogna costruirlo su ciò che ha valore. Se il talento c’è, come una
pianta, è necessario coltivarlo giorno per giorno: diceva Cechov “il
lavoro è scrivere una pagina al giorno”. Mi piace tanto stare tra i ragazzi, fermarmi e conversare con loro,
proprio come questa mattina (7 aprile ’14, ndr)».
Così, proprio nell’epoca in cui la società è presa da
social e cultura liquida Castellitto da un consiglio a tutti: «Non dimenticate mai di andare a teatro. È l’unico
che non sarà mai virtuale, è un rito. È l’unico che appartiene all’hic et nunc».