Da qualunque punto la si guardi, “SanPa-Luci e tenebre su san Patrignano”, la docuserie – la prima italiana – disponibile su “Netflix” dal 30 dicembre e che racconta, attraverso un lavoro giornalistico durato tre anni, nascita, ascesa e morte della più grande comunità italiana di recupero di tossicodipendenti e, soprattutto, del suo fondatore, l’imprenditore Vincenzo Muccioli, ha scoperchiato un vaso di pandora, facendo ripiombare l’attenzione dei giornali e dei media sul problema, ancora oggi gravissimo, delle persone entrate nel pericoloso tunnel della droga.
Il prodotto, frutto di un lavoro certosino fatto di interviste a ex ospiti della struttura, video originali dell’epoca, prime pagine dei giornali, domande ai protagonisti di quel periodo, è stato oggetto di pesanti critiche, stroncature, rivolte della stessa comunità, analisi positive e pure generose.
Noi, dal canto nostro, non siamo esperti tali da poter giudicare, ma è chiaro che siamo davanti a un tentativo coraggioso di analizzare, giornalisticamente, un periodo difficile della nostra storia (dal 1978, anno di fondazione della comunità in quel di Coriano, provincia di Rimini, al 1995, anno della morte di Muccioli e del passaggio di mano della struttura) di cui tanti sanno poco o nulla.
“Il miracolo non è quando spunta un fiore, ma quando spunta da una pianta morta”, ripeteva sempre Muccioli quando gli chiedevano quello che avesse fatto. Non sappiamo se sia effettivamente così, o se la sua comunità fosse il solo modo per salvarsi dall’autodistruzione a fine anni ’70, ma è indubbio che l’imprenditore riminese ha affrontato di petto un problema gravissimo di quel periodo: i troppi giovani e non che cadevano nel paradiso artificiale della tossicodipendenza e che le istituzioni, vedendoli come urina e segatura, abbandonavano a loro stessi.
Lui, invece, no. Li ha accolti come persone, cercando in qualche modo (forse, ed è tutto qui il dibattito, con metodologie non sempre corrette, ma dove inizia e finisce il “corretto” quando hai davanti a te evidenti problemi psicologici e psichici?) di aiutarli, curarli, riabilitarli aprendo una strada diversa. Vincendo molte partite e perdendone altre.
Nei primissimi anni ’80 – e nella docuserie si vede con il cosiddetto “Processo delle catene”, con oltre 200 testimoni in suo favore, tra cui Paolo Villaggio – Muccioli è quasi una divinità, una persona intoccabile, venerato dalle tantissime famiglie a cui aveva ridato una speranza di vita, un punto di riferimento per l’opinione pubblica, un “amico” da tenere stretto per i politici dell’epoca.
Poi, a metà anni ’80, fa capolino un nemico terribile, forse ancora peggio delle droghe. Si chiama AIDS, che in brevissimo tempo devasta tutto. Anche san Patrignano, nel frattempo cresciuta in modo esponenziale e che inizia a sfuggire al controllo del padrone/fondatore, subisce colpi. E sono durissimi, perché crescono come in un climax ascendente e incontrollabile.
Trattamenti sempre più “discutibili”, suicidi (leggasi quelli di Gabriele Di Paola, il 12 aprile 1989, e di Natalia Berla l’indomani), omicidi (passato alla storia quello di Roberto Maranzano nel 1987, il cui corpo è gettato in una discarica di Terzigno, vicino Napoli), tradimenti inaspettati, segnano quell’uomo che fino a qualche anno prima era una divinità. E lo faranno per sempre, letali come i problemi di salute – forse proprio AIDS o davvero l’epatite C – che lo portano alla morte.
San Patrignano, però, rimane in piedi anche senza il papà.
Con le sue luci (tantissime) e le sue ombre (impossibile dire quante siano).