A pochissimi chilometri da Bitonto, viaggiando sulla strada tra Gravina e Altamura, a brevissima distanza dall’ospedale Perinei, ci sono degli edifici ormai in pessimo stato di conservazione. Edifici che, visti da lontano, possono sembrare anonimi, ma che, via via che ci si avvicina, raccontano una storia lontana, ma al tempo stesso molto vicina a noi. Anzi, più storie. Sono gli edifici di Campo 65, il più grande campo di prigionia italiano durante la seconda guerra mondiale.
Oggi rimane molto poco di quello che fu un tempo. Molte delle baracche non ci sono più, distrutte per realizzare la strada che oggi lo costeggia. Quei pochi edifici superstiti sono pericolanti e necessitano di urgenti interventi di ristrutturazione, per evitare che la storia che essi raccontano si perda per sempre.
A raccontare cosa era ieri, cosa è oggi e cosa si spera che diventi in futuro è stato, giovedì, Domenico Bolognese, presidente dell’associazione Campo 65, ospite di uno degli incontri organizzati da Anpi, Partito Democratico e Partito Socialista Italiano, con il patrocinio del Comune di Bitonto, nell’ambito delle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario dalla Liberazione dal nazifascismo.
Bolognese ha raccontato la storia del campo. Anzi, le storie. Perché Campo 65 ebbe tre vite. La prima vita fu quella come campo di prigionia. I lavori per la costruzione furono ultimati nel 1942. Era ampio 31 ettari.
Le 36 baracche presenti contenevano fino a 12mila prigionieri di guerra alleati: inglesi, sudafricani, neozelandesi, canadesi, ciprioti, palestinesi provenienti principalmente dal fronte di guerra del Nord Africa. Gli internati, perlopiù ragazzi, vissero in condizioni difficili, a causa della cronica mancanza di cibo, acqua e igiene. Molti si ammalarono e circa non ce la fecero. Numero che, in realtà, descrive una mortalità bassa, considerando l’alto numero di prigionieri che di lì sono transitati, come ha sottolineato Bolognese: «Nonostante le difficoltà, i prigionieri ebbero la forza di organizzare spettacoli, mettere su una band musicale, persino incontri di pugilato. Si creò una mini economia alimentata dalle poche lire concesse ai prigionieri, da baratti con i soldati e da quanto trafugato sui campi limitrofi, da lavoro forzato».
L’associazione Campo 65, che ha preso il sito in custodia nel 2018, negli anni ha raccolto numerose testimonianze di discendenti di coloro che lì furono reclusi, accogliendo anche figli e nipoti di alcuni prigionieri.
«La seconda vita del campo fu quella come campo di addestramento per partigiani jugoslavi impegnati a combattere fascisti e nazisti oltre l’Adriatico, nei territori della futura Jugoslavia» continua Bolognese, ricordando una fase direttamente collegata alle celebrazioni del 25 aprile. A testimonianza di questa seconda vita, i murales disegnati dai combattenti che lì si addestrarono. Murales che raffigurano mappe, inni alla caduta del fascismo e alla liberazione dei territori ancora sotto il loro giogo. E omaggi a Gran Bretagna, Stati Uniti d’America e Unione Sovietica, i paesi in lotta contro le forze dell’Asse.
Purtroppo oggi non è possibile vederli, se non tramite le foto stampate sui totem installati dall’associazione Campo 65. Le baracche sono state murate, per motivi di sicurezza. Negli anni le strutture si sono progressivamente deteriorate. Parte del soffitto è caduta e l’alto rischio di ulteriori crolli rende altamente sconsigliabile anche solo avvicinarsi.
«La terza fase del campo fu quella dell’accoglienza di tutti gli italiani in fuga dai territori precedentemente occupati dal regime fascista» conclude Bolognese, ricordando alcune delle storie di chi in quell’ex campo di detenzione trovò una nuova casa. Tra questi, Romeo Sacchetti, ex cestista e, dal 2017 al 2022, allenatore della nazionale italiana di pallacanestro.
Gestito negli anni successivi dall’esercito italiano, fino agli anni ‘80, fu smantellato e raso quasi totalmente al suolo. Solo in anni recenti la sua storia è stata riscoperta e il campo è stato oggetto di scavi archeologici, diventando anche uno dei primi esempi di archeologia del contemporaneo, quella branca dell’archeologia che si occupa di scavare e ricostruire siti dalla storia recente.
Oggi, Campo 65 è un museo a cielo aperto che racconta un capitolo importantissimo della storia nazionale ed internazionale. L’omonima associazione svolge un’attività preziosissima per mantenere la memoria e per sensibilizzare la salvaguardia di quel che rimane. Un esempio che, parere di chi scrive, si potrebbe replicare per salvare un altro luogo che rischiamo di perdere per sempre: il nostro Campo dei Missili.