DI ANGELO PALMIERI, SOCIOLOGO
C’è una povertà che scivola tra le pieghe del quotidiano, invisibile o forse solo taciuta: è la solitudine.
Scivola nei pianerottoli muti delle nostre città, si insinua nelle stanze spoglie degli anziani obliati, negli sguardi impauriti e rassegnati di chi non riceve più telefonate, né visite, né attenzioni. Una solitudine che corrode. Eppure, basterebbe ascoltarla per riconoscerne i segni: l’anziano che vaga senza meta, che non partecipa più a nulla, che sfugge agli occhi dei servizi sociali perché non segnala il proprio bisogno.
Non si tratta solo di disattenzione, ma di una vera e propria mancanza di mappatura relazionale: sappiamo contare le case, ma non le persone sole. Sappiamo, al pari di un algoritmo, quantificare le prestazioni, ma ignoriamo il bisogno di uno sguardo, di una voce amica, di una postura umana che sappia dire con discrezione: “Sono qui con te e non ho fretta“.
Non è un semplice meccanismo di rimozione. È una resa abietta all’idea che ciò che non produce, non conta.
Una società che volta lo sguardo davanti alla fragilità dei suoi padri e delle sue madri smette, in fondo, di essere comunità. In questo deserto relazionale, si muovono anche famiglie – spesso sole – che si prendono cura di genitori non autosufficienti in situazioni di grande complessità. Caregiver esausti, privi di una rete, schiacciati da burocrazie farraginose e da una sanità che, pur parlando di integrazione socio-sanitaria, fatica a tradurla in gesti concreti.
E poi ci sono loro, i più soli tra i nostri vecchi, che ingoiano a fatica una minestra fredda nelle corsie d’ospedale, che non riescono più a mangiare da soli, che assumono ansiolitici non per una patologia psichiatrica, ma per il vuoto emotivo che li circonda. C’è chi finisce in residenze sanitarie che del “residenziale” conservano solo il nome: geometrie spente, pareti fredde, corpi fragili che si muovono, ignorati dagli sguardi, senza più essere accolti da una prossimità capace di farsi consolazione.
C’è anche un “badantato”, spesso appaltato a cooperative prive di scrupoli, divenuto industria opaca, più attenta ai margini di guadagno che al valore della cura. Di fronte a tutto questo, non basta più parlare di innovazione dei servizi come se bastasse cambiare forma per cambiare sostanza. Serve una rivoluzione gentile, che parta da una consapevolezza semplice: senza anziani non c’è futuro. Non c’è memoria, non c’è radice, non c’è orizzonte.
«La vecchiaia – ci ricorda Umberto Galimberti – non è solo un destino biologico, ma anche storico e culturale».
E se questo è vero, allora dimenticare gli anziani equivale a spezzare il filo di una narrazione che dà significato al passato, orientamento al presente e radici al futuro. In questa cultura del presente assoluto, dove il giovane performante è il modello vincente, rischiamo di perdere il senso di comunità, quel genius loci che abita l’anima condivisa dei nostri territori, delle nostre storie, delle nostre relazioni.
È allora qui che si apre un varco: trasformare la solitudine — malata e conosciuta, ma ancora troppo taciuta — da vergogna pubblica a priorità politica.
Perché non istituire, a livello comunale, una Commissione permanente o un Osservatorio sulla solitudine nella terza età? Uno spazio dove far convergere saperi diversi, esperienze locali, proposte concrete – non fumose né calate dall’alto. Un laboratorio che interroghi la città, che incroci dati e volti, che immagini soluzioni a misura di persona.
Non l’ennesima stanza per esperti a libro paga, ma una fucina di prossimità, viva e generativa, capace di restituire alla generazione più fragile il posto che meritano: al centro della comunità. Non si tratta di politica come “arte del possibile”, ma come costruzione condivisa di una civiltà della cura reciproca — quella di cui, oggi più che mai, tutti abbiamo bisogno. Non è una contorsione nostalgica, ma l’unica cifra per riconoscere la nostra direzione ulissea — il ritorno alle radici come mappa per non perderci nel presente.