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Home » L’Opinione/In solitudine non si vive bene, per questo poi si muore

L’Opinione/In solitudine non si vive bene, per questo poi si muore

Un male sottile che si è insinuato subdolamente nel nostro inconscio quale avvilente residuo di una modernità fin troppo avvelenata

La Redazione by La Redazione
15 Settembre 2024
in Cronaca
L’Opinione/In solitudine non si vive bene, per questo poi si muore
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di Marino Pagano, giornalista, saggista, docente

 Angelo Palmieri, sociologo, educatore di comunità

Un nuovo male flagella il nostro vivere: di solitudine si muore. La cronaca di ogni giorno riporta casi di anziani, ma anche di giovani vite trovate morte nella propria abitazione dopo molti giorni o addirittura mesi.

Ricordiamo tutti il caso di Marinella Berretta, settantenne, pensionata, originaria di Erba alle porte di Como. Saranno i vigili del fuoco ad entrare nella sua abitazione, nel 2022, trovandosi di fronte il corpo di una donna morta almeno da due anni e mezzo per cause naturali. A Ravenna, un anziano, affoga la moglie gravemente malata per paura che nessuno dopo di lui avrebbe potuto accudirla. Un’emergenza silenziosa nella quasi indifferenza generale dell’informazione. Basti pensare che un terzo degli anziani è solo: il 14% degli ultraottantenni vive una sorta di “autoreclusione domestica”. Questo capita soprattutto nelle nostre grandi città, nella rete dei borghi e dei nuclei più piccoli, forse, questo fenomeno si attenua: non si può essere completamente soli se si abita non al sesto piano ma, praticamente, sulla strada.

Non si conta più la letteratura scientifica che evidenza quanto la mancanza di relazioni sociali infici la salute pubblica. La sola percezione di essere soli, disancorati da legami forti, “nuoce al corpo al pari di quindici sigarette fumate in un solo giorno o di sette cocktail alcolici bevuti di seguito”. Del trauma della solitudine si è ampiamente discusso durante il periodo del lockdown, quando quella triste epidemia ha fattualmente impedito ogni forma di contatto fisico, con conseguenze psicologiche devastanti, specie per la fascia degli anziani e dei giovani. La solitudine è diventata un tema centrale nel dibattito internazionale con la pubblicazione del report americano ad opera di Vivek Murthy, che sintetizza la strategia pensata dal governo federale per creare processi di consapevolezza sull’emergenza solitudine. Si stima, infatti, che in America uno su due dichiari di sentirsi un essere indistinto, invisibile e solo: un aspetto, questo, che investe in modo trasversale ogni fascia di età, anziani e non solo, ricchi e poveri. Un report non solo epidemiologico, ma con un esplicito invito a rafforzare le relazioni nei modi più disparati, dal rispondere alla telefonata di un amico al compiere un atto di servizio. Ad approfondire il tema ci sono studi che evidenziano quanto l’assenza di relazioni inneschi meccanismi di involuzione neurobiologica. Le conseguenze sono allarmanti: accelerazione dei processi infiammatori, riduzione del funzionamento del sistema immunitario e il rischio di morte prematura. Inoltre, chi si scopre solo è maggiormente esposto al rischio di malattie respiratorie, infarto, ictus e depressione. Aspetti su cui necessita, da parte dei vari organismi preposti, riflettere sulle ripercussioni in termini di aumento della spesa sanitaria pubblica e del mantenimento della produttività della forza lavoro. Si stima, ad esempio, che nel Regno Unito la solitudine degli over 50 anni costi al servizio sanitario nazionale (Nhs) circa 1,8 miliardi di sterline all’anno. Ma è inutile nascondersi il fatto che il problema della solitudine abbia un chiaro riverbero internazionale: il bisogno di compagnia sembra dilagare nella gran parte dei paesi sviluppati. Nel Regno Unito, nel 2018, l’allora governo di Theresa May istituì un ministero ad hoc su questo. Iniziative che sono state poi replicate anche dal governo giapponese, con i medici pronti a prescrivere attività di gruppo e incentivi all’amicizia per i pazienti a rischio. Persino la Cina, con il suo collettivismo istituzionale, sembra attraversato dal problema: i ricercatori della Chinese Academy of Science, analizzando i testi delle dieci canzoni più ascoltate dal 1970 al 2010, hanno scoperto che il pronome ‘noi’ e l’aggettivo ‘nostro’ sono caduti in disuso a favore di ‘io’ e ‘mio’. Risultati non dissimili da quelli americani sono emersi in uno studio della Commissione Europea, nel quale si sottolinea il crescente numero dei cittadini comunitari che dichiarano di soffrire spesso o sempre di solitudine: nel 2022 si sono assestati intorno al 13%. Pure l’Italia, a differenza di livelli bassi che si registrano in paesi quali la Repubblica Ceca, l’Austria e la Croazia, si posiziona nella fascia tra il 13% e il 14%.

Se mancano significativi studi che attestino in Africa e nell’America del Sud l’insorgenza di questo problema, molto probabilmente va ascritto alla mancanza di dati statistici.

Ma perché tanto malessere? Interessante il contributo della scrittrice Noreena Hertz, l’economista e saggista inglese autrice del recente libro “Il secolo della solitudine”, che riconduce il problema al modello mentale, tipico del nostro tempo, che incoraggia il singolo a pensare solo a sé stesso e a vedere gli altri come concorrenti: insomma, un male sottile che si è insinuato subdolamente nel nostro inconscio quale avvilente residuo di una modernità fin troppo avvelenata da smartphone e social media. E questi, senza ombra di dubbio, contribuiscono ad amplificare, come dimostrato da numerosi studi, il senso di solitudine, alimentando l’isolamento sociale e intaccando le relazioni interpersonali nel mondo reale.

Senza trascurare il fatto che la conseguente mancanza di relazioni produce un forzato isolamento spesso avvertito come una sorta di tradimento da parte delle istituzioni e dei suoi rappresentanti che inevitabilmente trascina verso forme esasperate di estremismi politici.

Assistiamo ad un ‘io’ che fa fatica ad inoltrarsi nelle nuove “mappe della vita anonima”, che non si costruisce più in relazione ad un ‘tu’, ma una soggettività senza confini identificativi. Proiezioni di progetti di vita narcisisticamente ripiegati su sé stessi senza scopi intellegibili. Identità narcisistiche come conseguenza di una struttura sociale e culturale significativamente modificata.

Tratti che, come evidenziato dalla psicoanalisi, si manifestano in una polarizzazione della propria esperienza sul senso di paura e impotenza di fronte alla realtà e contemporaneamente su un senso euforico di libertà illimitata.

Il dibattito pubblico è tutto focalizzato attorno all’urgenza di investire in spazi comunitari per esercitare il senso della compagnia, ovvero più biblioteche, centri giovanili, banche del tempo, condomini solidali. In definitiva, soluzioni pensate per sperimentare il noi, in cui poter fare esperienza della vicinanza fisica ed emotiva, in cui si esercita il confronto e la stessa democrazia. Si tratta, in sostanza, di reinventare il proprio modo di stare nel mondo, aprendolo alla partecipazione attiva, all’empatia, alla responsabilità sociale. Altra riflessione ruota attorno all’utilizzo dell’intelligenza artificiale che propina robot progettati per fare compagnia.

Tuttavia, appare avvilente, oltre che poco plausibile, l’ipotizzare ‘abbracci meccanici’. A dirlo è la scienza che sottolinea come il contatto umano attivi il nervo vago, abbassando i battiti del cuore ed irrigando calma nel corpo. È la carezza che cura, che sana ogni ferita. È forse giunto il momento di cogliere compiutamente questo aspetto. Investire sul proprio io l’intera felicità appare un’operazione fallace e mortifera; è bene ricordarlo che la felicità non è mai una vicenda privata. È una sfida che coglie in profondità la ragione stessa per la quale viviamo. Occorre ragionare su nuove forme di prossimità, se vogliamo ritessere il noi del convivere contemporaneo indebolito dalla globalizzazione. Abbiamo bisogno di vincere la solitudine riscoprendo le ragioni dello stare insieme, dell’abitare un luogo comune, del fare comunità.

Siamo chiamati alla sfida a trasformare una economia disumanizzante in un sistema più decisamente umano che permetta un “essere e sentirsi comunità” e miri a porre lo spirito civico come principale obiettivo di ogni azione sociale e culturale per la “civitas”.

Diversamente resta salda solo l’idolatria dell’io con inevitabili derive distruttive, corroborata dal mercato. A tal proposito, Silvano Petrosino, in un suo recente saggio filosofico, “L’idolo. Teoria di una tentazione. Dalla Bibbia a Lacan”, ci parla di idolatria come “tentazione per fuggire dall’inquietudine”. “Se vogliamo fermare il percorso distruttivo della solitudine e recuperare il senso di comunità e coesione che abbiamo perso, dovremo prendere atto che ci sono passi da compiere, come anche compromessi a cui dovremo scendere, tra individualismo e collettivismo, tra interesse personale e sociale, tra anonimato e familiarità, tra comodità e cura degli altri, tra ciò che è giusto per sé stessi e ciò che è meglio”: è l’invito che rivolge Noreena Hertz. Un invito ad imboccare il cammino dell’autentica crescita umana, che non può non esserci se non ritrasformandoci da egoisti ad altruisti, da osservatori indifferenti a partecipanti attivi.

 

 

 

 

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