Che nella crisi pandemica la priorità su ogni altro diritto debba essere riconosciuta alla salute, è indubbio. Eppure, non sembra sbagliato pensare di poter considerare gli atti di discernimento politico assunti durante l’emergenza come una cartina al tornasole, che renda palese la gerarchia di beni comuni cui il sistema istituzionale riconosce valore.
Se ciò è vero, l’accreditamento del diritto alla istruzione che se ne dovrebbe concludere rispetto alla scala valoriale italiana, e pugliese in particolare, non potrebbe che apparire deludente. Se in Francia si è disposti a chiudere e rinunciare a tutto tranne che alla scuola, in Italia, invece, le priorità appaiono esattamente rovesciate. Vuoi per pragmatismo (l’efficacia immediata sul decongestionamento dei trasporti che un provvedimento come la chiusura delle scuole garantisce), vuoi per scarsa considerazione, le scuole sono la prima cosa che i decisori sembrano disposti a chiudere. I decisori regionali, e magari anche locali, più ancora di quelli nazionali.
La scuola non sembra essere poi così importante tra i beni che una comunità sente di dover difendere. Peggio ancora, quando pare assumere una certa importanza, lo fa per ragioni estrinseche: perché con le scuole chiuse i genitori non sanno dove parcheggiare i figli, di solito; o magari perché non pare giusto che rimangano a casa a poltrire i lavoratori della scuola, che la vulgata vuole nullafacenti a reddito garantito.
Il discredito generalizzato per quello che la scuola rappresenta nasconde, forse, un problema più grande: l’ignoranza pressocché totale in merito a quel che nelle scuole, ogni giorno, accade. Di scuola, in queste settimane, tutti parlano; ma chi conosce davvero ciò di cui parla? Neanche coloro che hanno la responsabilità politica di amministrarla, a giudicare dall’Ordinanza con cui il Presidente della Regione Puglia ha previsto di esentare gli alunni con Bisogni Educativi Speciali dalla didattica Digitale Integrata, senza evidentemente sapere cosa i BES siano.
Che il dibattito scatenato dalla pandemia non possa divenire, allora, un’occasione per far uscire la scuola dalla propria autoreferenzialità e porla al centro di un dibattito pubblico, serio e informato?