Esattamente cinquanta anni fa, con la legge n.300 del 20 maggio 1970, veniva approvato il cosiddetto Statuto dei Lavoratori, una legge che introdusse nuovi diritti, fino ad allora sperati, agognati, ma mai ottenuti, e che, ancora oggi, rappresenta la base della disciplina del lavoro in Italia. Fu voluto dal ministro Giacomo Brodolini (Partito Socialista Italiano) e, alla stesura, lavorò il professor Gino Giugni, docente presso l’Università di Bari, dal cui manuale di diritto del lavoro continuano, ancora oggi, a studiare gli studenti. Fu il risultato di una grande stagione di impegno politico e di lotte da parte dei lavoratori e dei sindacati, che seppero far fronte comune per far sì che il mondo del lavoro fosse più a misura di lavoratore e non solo a misura di datore.
Cinquanta anni sono passati da allora. Il mondo del lavoro è molto cambiato. I sindacati non sono più forti e uniti come un tempo e, spesso, quei diritti che si credevano acquisiti si rivelano essere in pericolo. Anche di fronte a nuove forme di lavoro sorte negli ultimi anni, grazie ai progressi tecnologici. Forme di lavoro che, in molti campi, possono essere utili, ma, se non disciplinate bene, anche pericolose per chi presta la propria forza lavoro.
Parliamo ad esempio del lavoro a distanza o, se vogliamo usare la lingua d’Albione, “smart working”, la cui corretta traduzione in italiano sarebbe “lavoro agile”. Talvolta indicato come “telelavoro” o, se vogliamo utilizzare una definizione più impropria, ma certe volte usata, “lavoro intelligente”. Una forma del lavoro snobbata o relegata a poche attività, qui in Italia, sin da quando l’avvento di internet ha creato la possibilità di svolgere mansioni lavorative dalla propria abitazione, senza recarsi fisicamente in ufficio. Ma, oggi, in tempi di emergenza sanitaria e di distanziamento sociale, venuta alla ribalta in quanto utile alternativa al lavoro in ufficio, oggi fonte di pericolo di contagi.
Ma, se non governato da norme chiare e aggiornate ai tempi odierni, da comodo strumento a favore dei lavoratori, il lavoro a distanza potrebbe trasformarsi anche in strumento di sfruttamento ai loro danni. Potrebbe inficiare sull’effettivo riconoscimento dei tempi di lavoro, ad esempio, o sulla capacità dei lavoratori di riunirsi fisicamente per far valere, all’unisono, le proprie istanze. I lavoratori, in sostanza, corrono il rischio di essere più soli di fronte a queste sfide. E, dunque, meno forti, meno in grado di far valere i propri diritti.
Lo conferma anche Gigia Bucci, rappresentante provinciale della Cgil: «È una modalità di lavoro che, sebbene finora non abbia trovato reale applicazione nel mostro paese, oggi è alla ribalta, consentendo una prosecuzione, in forme diverse, delle mansioni lavorative. Ma è necessario che sia disciplinato adeguatamente, attraverso una contrattazione collettiva, per evitare che si trasformino da opportunità per i lavoratori a strumento di sfruttamento ai loro danni».
«Il mondo del lavoro e le modalità con cui siamo abituati ad organizzare l’attività produttiva stanno cambiando. La situazione, per milioni di lavoratori non sarà più la stessa» continua Bucci. Un cambiamento inevitabile, certamente: «Ma la vera sfida è affrontare questo mutamento, evitando, al tempo stesso una emorragia di posti di lavoro e di diritti per ai danni di chi vedrà il proprio impiego completamente modificato».
Per non parlare degli ostacoli che possono porsi di fronte al “lavoratore agile” che potrebbe non essere dotato della strumentazione adatta per lavorare da casa (un buon computer e una buona connessione alla rete internet) o dei giusti spazi. Sì, perché anche quelli sono necessari, come ben sa chi è, in questi giorni, costretto a lavorare in abitazioni di pochi metri quadri, convivendo con la propria famiglia, che inevitabilmente subisce e crea disagi. Quindi, sebbene, adesso, sia comprensibile un po’ di improvvisazione nell’attuazione di nuove forme di lavoro, alla luce della situazione di emergenza, sarà necessario, da parte di politica, sindacati e mondo del lavoro, un grande sforzo e grandi investimenti, per fare in modo che i lavoratori non solo siano protetti da quel coltello che non hanno certo dalla parte del manico, ma della lama. Ma che siano messi realmente in grado di poter svolgere quel che si chiede loro.