Pensavamo
di aver visto tutto pochi mesi fa. A gennaio.
Con la
carneficina di Charlie Hebdo, giornale
satirico francese che aveva avuto come grande colpa quella di aver
insistito un po’ troppo con alcune vignette su Maometto. Senza
dimenticare la sparatoria al supermercato kosher Hyper Casher dove a
perdere la vita sono stati alcuni ebrei francesi.
Allora, invece, non avevamo capito che il nemico, il “nuovo” (in
realtà tale non è per niente) avversario era arrivato davvero a
casa nostra. Che l’Isis, quello Stato islamico che sta calamitando i
jihadisti di tutto il mondo ostentando il proposito di creare una
società perfetta e musulmani nuovi capaci di purificare la Terra, ha
portato il terrore a due passi da noi.
Abbiamo
preferito far finta di niente, se non dire “Je suis
Charlie”, buttare qualche bombetta qua
e là in Siria e Iraq e un accordo di facciata con l’Iran.
Ci
siamo svegliati ieri l’altro.
In
una serata che a Parigi pensavano di passare normalmente come tante
altre. Con l’amichevole Francia-Germania, un concerto al teatro
Bataclan, qualche caffè in qualche bar del centro, e tante altre
cose che appartengono allo scorrere ordinario della vita quotidiana.
Non
potevano sapere (questo no, ma prevedere sì, eccome, con tutti i
servizi segreti che ci sono) che avrebbe contato un numero indefinito
di morti e di feriti. Di avere a che fare con un piano d’attacco
perfetto degno del migliore Al Qaeda che l’avrebbe colpita
ripetutamente e simultaneamente al cuore.
Di
essere nuovamente simbolo di quell’Europa e di quella parte di mondo,
quella Occidentale, che si ritrova a essere fragile, impotente e
nuda.
E
che non sa ancora come vestirsi.
Perché
sempre e ancora la Francia? Certo, come scrive Tahar Ben Jelloun in
“E’ questo l’Islam che fa paura”, il
paese transalpino ha la “colpa” di «essere uno Stato
laico, ma per quei fanatici (i
seguaci dell’Isis, ndr) la laicità è una forma di
ateismo. Per loro chi commette una blasfemia diventa un’apostata,
qualcuno che viene estromesso dalla comunità musulmana».
Ma
non solo.
È
la nazione che presenta un altissimo numero di islamici.
Anche.
In
realtà, la patria della libertà, uguaglianza e fratellanza è il
simbolo vivente di quell’ipocrisia e di quel fallimento che tutti gli
Stati “seguaci” degli Stati Uniti hanno accumulato in oltre 40
anni di sbagliate politiche estere.
«Davvero
abbiamo dimenticato – scrive Franco Cardini in “L’Ipocrisia dell’Occidente”–che fin dagli anni Settanta sono stati gli statunitensi in
Afghanistan a servirsi dei guerrieri-missionari fondamentalisti
provenienti dall’Arabia Saudita e dallo Yemen preferendoli ai
portatori di un Islam fiero, intransigente ma anche tollerante?
Davvero ignoriamo che la malapianta del fondamentalismo l’abbiamo
innaffiata per anni, prima che i rapporti si guastassero a metà anni
’90? Non si sono accorti, i francesi, di essere in guerra fin dal
2011, quando l’allora presidente Sarkozy ha appoggiato con decisione
le milizie jihadiste in Libia contro Gheddafi e poi Hollande in Siria
contro Assad?».
Senza
dimenticare la guerra del Golfo nei primissimi anni ’90, l’invasione
in Afghanistan nel 2002 e il conflitto iracheno nel 2003.
E
quella pagliacciata della “primavera araba”, che ha solo creato
maggiore instabilità in quella caldissima zona di mondo.
Già,
purtroppo è così: il mostro lo abbiamo fatto nascere e crescere
noi. Lo abbiamo sfruttato quando ci faceva comodo. E adesso lo
abbiamo fatto ritorcere contro.
Che
fare, allora, contro il gruppo terrorista più forte e ricco del
pianeta, che può vantare un tesoro liquido stimato di oltre 2
miliardi di dollari e che avrebbe avuto come maggior finanziatore,
tra il 2013 e il 2014, il Qatar?
Innanzitutto,
nessuna azione diplomatica.
Nessun
dialogo e confronto con chi interpreta a suo piacimento il Corano, il
concetto di Jihad, vuole cancellare gli Stati esistenti riproponendo
l’unità dei musulmani del tempo di Maometto, eliminando anche
fisicamente la scissione sciita. Si diverte a distruggere i simboli e
i monumenti della cultura pre-islamica (vedi Nimrud e Palmira).
Da
attuare, e subito, un controllo serio e severo contro quei
fondamentalisti che vivono nei nostri confini, reclutati nelle
carceri e tramite i social network e infine addestrati a combattere.
Li
chiamano “foreign fighters”. Semplicemente sono adepti
«senza lavoro – scrive sempre Tahar Ben Jelloun – o con
un lavoro non molto soddisfacente, niente cultura, niente educazione,
nessuna famiglia strutturata».
È
necessaria, poi, un’unica, unitaria e univoca coalizione e strategia
politica (magari guidata dalla Russia) che non devono limitarsi ad
operazioni di intelligence, droni, bombe o truppe speciali. «Servono
– sottolinea Maurizio Molinari in “Il Califfato del
terrore” – piuttosto truppe di terra per riconquistare le aree dove
i jihadisti hanno santuari sempre più simili a Stati».
E
non sarebbe male, poi, se i veri seguaci dell’Islam, gli islamici,
iniziassero a dissociarsi in modo netto e forte da chi sta
distruggendo la loro religione.
Per
fare tutto, servirà tempo. Settimane. Mesi. Forse anni. Ma deve
esserci la volontà, innanzitutto.
Perché
venerdì, davanti (anche) a quelle innocenti vittime che morivano uno
appresso all’altro nel teatro Bataclan a colpi di mitragliette e
kalashnikov, l’Europa è cambiata per sempre…