Non ricordo se facesse particolarmente caldo, in quell’abbraccio di fine estate 1990, quando Bitonto divenne per pochissimo tempo il rifugio fisico di sogni che spesso vedevi lontani. Un tempo anagrafico ed esistenziale in cui il sole sembrava dipingere le strade di colori vibranti, senza quasi accorgertene, ballando a quel ritmo cristallino ed abbacinante, semplicemente perché la tua inconsapevole e beata felicità ti imponeva di farlo. Ed accadeva che anche il cuore batteva al ritmo incalzante e pressante del calcio. Il battito era, è e sarà per sempre nerazzurro, quei colori del cielo della notte e che del sole non sono il contrario: piuttosto la sua attesa, nel rischio quasi sfrontato di quello stesso, folle amore notturno.
Nutro un ricordo ancora vivido di quel giorno, lo ricordiamo non pochi a Bitonto il giorno in cui Andreas Brehme (1960-2024), scomparso improvvisamente ieri, fu nella nostra città. Andy, campione di un calcio radicato nel mito di una robustezza che sapeva essere poetica e fine ed insieme però potente, acuminosa, tagliata perfetta e su misura.
Brehme fu qui con Jürgen Klinsmann, altro straordinario atleta, con Lothar Matthäus lì a comporre il trio dei tedeschi dell’Inter di Giovanni Trapattoni.
I due teutonici a Bitonto con il Trap stesso, per un allenamento speciale in vista dell’amichevole serale col Bari al San Nicola, allora ai suoi primi tempi, immediatamente dopo il Mondiale di Italia ’90. E fu da campione del mondo che Brehme fu qui, autore anzi dell’affilatissimo rigore della finale di Roma con l’Argentina.
Coi miei zii più piccoli raggiungemmo via Megra in pochissimi minuti, dal centro cittadino, appena diffusa la notizia. Lo stadio bitontino invaso ma non troppo di supporter interisti. Almeno così dice la mia memoria. Insomma, potemmo avvicinarci ai giocatori, anche qui non troppo però. Mentre il Trap ci fu concesso di più.
La presenza di Brehme, mito della mia personale ‘prima’ Inter, assieme a Klinsmann, diede dunque corpo al sogno. Era un’epoca di ingenua meraviglia, di partite oltre le partite, di amore totale, di una fiamma e passione che poi avrei scoperto antiche e che allora vivevano anch’esse l’età primigenia e appunto infantile.
Il tempo un’eternità fugace, apparentemente chiuso in voci e suoni apparsi tutti con il loro carico nell’istante e nel profondo, quando sul mio cellulare, ieri mattina, ho appreso la notizia della morte del beniamino di tanti di noi. Non ho voluto crederci, il classico caso che devi prima metabolizzare, minimamente e mentalmente. Nell’immaginario collettivo un pochino anche ‘nascosto’, Andreas, perché Lothar era ed è Lothar e poi invece Klinsmann vantava e vanta diverso carattere e allora, quasi quasi, Brehme se ne stava più in silenzio, parlando nei nostri ricordi. Il fatto che abbia attraversato una vita poi anche in parte difficile e che il destino ce l’abbia tolto prima e così prematuramente ci offre la dannata e triste possibilità di dialogare con lui e con le nostre emozioni, all’improvviso.
La realtà è che Brehme, con il suo carisma e la sua maestria, incarnava valori che andavano oltre il calcio stesso. La sua presenza, seppur lontana ormai dall’Italia -a cui era vicino col cuore e dove spesso tornava-, risplendeva come un faro nella mia, nostra memoria: un portato di luce che illuminava e continuerà ad illuminare i sentieri della passione e della nostra fede sportiva. Oggi, nel riflesso triste dell’anima, quei ricordi risplendono di luce struggente. Sono frammenti di un tempo che sembra sfuggire e che però resta inciso nell’essere, con la soave solidità di una cicatrice felice.
I cross di Brehme, vere danze celesti, resteranno un’immagine indelebile nella mente nerazzurra di tanti di noi ma direi di chiunque ami il calcio. La precisione, la potenza, la grazia con cui dirigeva il pallone verso i suoi compagni di squadra erano un’ode alla perfezione e alla dedizione assoluta al proprio fine sportivo.
In questo intimo scrigno di emozioni, quella mattinata bitontina dei due tedeschi e di Trapattoni diventa il palcoscenico ideale di una storia personale e collettiva, un luogo sacro perché vive ed esiste esattamente dove la passione si fonde con l’esistenza stessa. E Brehme, con la sua leggenda senza tempo, continuerà ad essere guida e simbolo, a riempire di senso il sentiero di quella stessa passione. Un amico silenzioso, un compagno però significativo di un amore che non conosce oblio. Non lo dimenticheremo perché crescere, invecchiare comporta anche piccoli fardelli emotivi di questo tipo che custodiamo col piacere di chi sa elevarsi con ricordi semplici, inerenti però esempi e campioni che sono stati grandi: su un campo di calcio e, quasi inconsapevolmente, nella tua vita. Ciao, campione.
Marino Pagano