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Home » Il dopoguerra a Bitonto. I tumulti del novembre ’47 e la cosiddetta “repubblica rossa”

Il dopoguerra a Bitonto. I tumulti del novembre ’47 e la cosiddetta “repubblica rossa”

Nel mese fulcro della raccolta olivicola, i braccianti insorsero per chiedere pane, lavoro e dignità

Michele Cotugno by Michele Cotugno
16 Dicembre 2017
in Cronaca
Il dopoguerra a Bitonto. I tumulti del novembre ’47 e la cosiddetta “repubblica rossa”
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1947. La guerra è finita da due anni e l’Italia è alle prese con la ricostruzione. A maggio è caduto il governo tripartito, formato da Dc, Psi e Pci e questi ultimi due, esclusi dalle funzioni di governo, muovono dura opposizione.

Ma la guerra più dura da combattere è contro la miseria. Gli strati più poveri della popolazione, soprattutto braccianti agricoli, ultima ruota del carro sociale, chiedono migliori condizioni di vita a proprietari terrieri troppo spesso sordi e allo stato italiano. Chiedono pane, lavoro e dignità, in un territorio come quello di Puglia e Basilicata che conta oltre 150mila braccianti disoccupati.

Le rivendicazioni sono raccolte da comunisti, socialisti e dai sindacati che chiedono il rispetto dei contratti stipulati e il riconoscimento del limite di otto ore al giorno. Sindacalisti come Di Vittorio, di cui a novembre si è celebrato il sessantesimo anniversario dalla morte, si battono per i braccianti. Ma spesso le manifestazioni si trasformano in rivolte, anche violente, che trovano impreparati il governo e le forze dell’ordine che, non riuscendo a gestire la situazione, intervengono talvolta con le armi.

Succede in tutta Italia. Soprattutto al Sud, dove l’agricoltura ricopre un importantissimo ruolo economico e sociale, prima che l’industrializzazione svuoti le campagne. Anche in Puglia si registrano disordini che portano anche vittime sia tra i dimostranti che tra le forze dell’ordine.

A Bitonto è il ’47 l’anno caldo, con violente insurrezioni e scontri armati contro polizia e carabinieri. C’è chi parla anche di un tentativo di “repubblica rossa”, tipo quella che il 6 maggio ’45 era stata dichiarata a Caulonia, Reggio Calabria, o tipo il tentativo di insurrezione del giugno dello stesso anno a Minervino, dove dopo l’arresto di alcuni cittadini per furto e renitenza alla leva, era scoppiata una rivolta cittadina con trincee, armi e mitragliatrici piazzate nei punti nevralgici del paese.

È il 19 novembre di settanta anni fa. Periodo fulcro per la raccolta delle olive, principale risorsa economica. La situazione è incandescente da mesi. Il 18 settembre la polizia aveva aperto il fuoco su lavoratori in sciopero ferendo numerose persone. I braccianti, sostenuti da Pci, Psi e dalla Cgil, che aveva dichiarato lo sciopero ad oltranza in tutto il barese, chiedono lavoro e condizioni di vita più dignitose. Ma tra le parti si fatica ad avviare un dialogo.

Durante un comizio del segretario socialista cittadino Angelo Custode Masciale la notizia di spari in un frantoio scatena il caos. A darne testimonianza è uno scritto di Domenico Saracino, sindaco dal ’62 al ’66, pubblicato nel dicembre 2012 dal “da Bitonto”. L’Unità, giornale vicino ai manifestanti, riporta di bombe a mano e colpi di fucile contro i lavoratori, da parte degli agrari, nei pressi del palazzo comunale, dove si tengono trattative tra le parti. E parla di «provocatoria dimostrazione della polizia». “Giù le mani dai lavoratori di Puglia! Giustizia per i contadini affamati!” titola il giornale comunista il 21 novembre ‘47.

Nonostante gli appelli alla calma di Custode Masciale, i manifestanti si dividono in più gruppi, lanciando invettive contro i padroni, i latifondisti, e contro le forze politiche a loro vicine, le “sedi della reazione agraria” come la DC, la cui sede in piazza Cavour è assaltata. Tutti gli arredi interni vengono ammucchiati sulla piazza e incendiati. Sorte simile subiscono il Circolo Unione in piazza Margherita di Savoia (oggi piazza Aldo Moro) e la sede del Movimento Dell’Uomo Qualunque, in via de Ilderis, colpita da bombe. Un gruppo di manifestanti occupa la società telefonica, impedendo le comunicazioni tra il commissariato di Polizia di Bitonto e Bari. Altri arrivano a Porta La Maya, bloccando a colpi di fucile la Polizia giunta da Bari dopo l’interruzione delle comunicazioni. Un ordigno ferisce don Pasquale Dileo, cappellano della chiesa del Carmine. Spesso, infatti, la Chiesa era accusata di essere più vicina ai latifondisti che ai poveri contadini.

La situazione va avanti sino al giorno dopo, quando a sedare la rivolta intervennero le camionette dei Carabinieri, piazzando mitragliatrici lungo corso Vittorio Emanuele II. Oltre cento militari furono inviati, come riporta La Stampa il 22-23 novembre 47 raccontando i disordini e ponendo l’accento più sull’ordine pubblico che sulle ragioni degli insorti. Bilancio dei disordini è di “qualche ferito non grave” (L’unità). I presunti organizzatori vengono arrestati.

Ma le proteste in Puglia sono destinate a durare ancora per anni. Dopo pochi giorni un nuovo tentativo di “repubblica rossa” si ha anche a Gravina.

Al di là delle violenze, queste lotte per il lavoro posero al centro dell’attenzione generale i problemi dei braccianti, che cominciano a fare politica e, partendo da una difficile condizione di vita sociale e di estrema miseria, prospettano e alimentano proteste riformatrici di rilevante respiro nazionale. Temi ancora attuali, se pensiamo che, ancora oggi, c’è chi viene sfruttato, c’è chi muore di fatica per guadagnare pochi spiccioli nelle campagne.

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