«Loredana,
ti va di scrivere un ricordo di don Franco?»
La richiesta è fatta in un 6 ottobre di lacrime e di
pensieri, di ricordi che frullano per la testa.
La risposta non arriva o meglio
è un “non lo so”.
Non sapevo se mai avrei trovato il coraggio di mettere in
ordine i pensieri, affinché fossero comprensibili anche agli altri, non so se
mi sarebbe mai andato di condividere con gli altri i ricordi degli anni della
mia vita passati in piazza Cavour n.1 e non solo.
Poi, però, torna in mente lo sguardo della moglie
Tiuccia, la nostra stretta di mano e le sue due parole, riecheggiate nella
Chiesa del Purgatorio: «Ricordatelo
sempre».
E allora forse è giusto scrivere qualcosa su Franco Amendolagine.
Il decano dell’informazione della nostra città a
Bitonto ha più nomi: don Franco per alcuni, Franceschino per altri. Per me,
invece, è sempre stato “Direttore”.L’ho conosciuto infatti come guida del “da
BITONTO”, sua creatura, e per me dal 2010, seconda casa.
Ricordo perfettamente il giorno in cui varcai la soglia
del suo mitico studiolo con una borsa piena di cartacce: vecchi articoli
scritti per i laboratori universitari, curriculum all’epoca con poco più dei
dati anagrafici. Cose che scoprii non necessarie.
Solo un paio di domande per capire di che pasta fossi
fatta e l’invito a scrivere un articolo “di prova”. «Hai un naso grande. Buon segno» esclamò e improvvisamente il
mio naso (fino ad allora considerato nella norma) divenne un difetto fisico, ma
poco valeva se era una buona caratteristica per far la giornalista, come avevo
sempre sognato.
E ricordo ancora la commozione nel trovare il “pezzo di
prova” e la mia firma su una pagina del suo giornale. L’articolo era piaciuto,
tanto che don Franco pensò di aver trovato “una penna buona”.
E prese a
presentarmi così (non senza il mio imbarazzo) in ogni convegno in cui lo
affiancavo, ad ogni persona che faceva capolino nel suo studio pieno di storie,
di foto, di documenti e di “rubriche”.
Tutti sapevano che l’avrebbero trovato lì, dietro la
scrivania a destra, seduto sulla sua sedia, alle prese con mille carte e con
milioni di aneddoti e storie da raccontare. Le storie delle sue battaglie
giornalistiche, del suo operato all’ufficio tecnico comunale, che narrava anche
a me, mentre cercava di insegnarmi l’ABC del giornalismo e ad utilizzare in
modo appropriato i ferri del mestiere.
Solo chi non ha lavorato con Franco Amendolagine potrà
infatti pensare che l’occorrente per un giornalista sia una penna, un foglio o
meglio ancora, per i più tecnologici, un pc, un tablet o altre diavolerie
informatiche.
Per lui, per realizzare un giornale cartaceo, era
indispensabile avere due matite ben temperate (una dalla punta morbida e una
dura), una gomma, una penna nera, una rossa, un righello, le stampe dei vari
articoli e il menabò.
Grazie a questo, don Franco disegnava lo schema delle sue
pagine, da inserire in cartelline di due diversi colori (a seconda che fossero
provvisorie o definitive) e consegnare al tipografo. Pagine magari dalla
grafica imperfetta, ma studiate nei minimi dettagli.
L’accostamento di articoli, posso assicurarlo, non era
casuale e le linee di separazione, spesso persino assenti, contenevano
messaggi. Esattamente come gli spazi tra le righe dei suoi articoli.
«Bisogna
leggere le righe bianche» ripeteva sempre e forse
nessuno come lui era in grado di vergarle.
Io non so se mai troverò quella penna dall’inchiostro
invisibile, non so se mai perdonerà che queste parole siano pubblicate su “un
blog” e non sulla sua amata carta stampata, non so se mai riuscirò a
rassegnarmi all’idea di quella porta chiusa in piazza Cavour n.1 o a non sentire la sua voce dall’altra
parte del telefono, ma, carissimo Direttore, cercherò sempre di far tesoro dei
suoi insegnamenti e farò del mio meglio per restare la sua “penna buona”.
E so che queste poche parole non saranno mai abbastanza
per descriverla al meglio…