“Pallium” era per gli antichi latini il
mantello.
Questo
drappo, spesso color rosso sangue, avvolgeva le spalle dell’uomo romano e lo
faceva sentire meno solo di sera, nel chiaroscuro dei quadrivi.
È
proprio da questo termine che deriva l’aggettivo palliativo, soltanto da pochi
anni abbinato al sostantivo “cura”.
Cure
palliative: una rivoluzione culturale, sociale e di civiltà. Di democrazia
matura.
Uno
strattone forte ai convincimenti sulla morte radicati nell’umanità, vecchi e
nuovi.
Un
brusco deragliamento dai luoghi comuni sulla salute al lumicino.
Dunque,
in questi giorni, presso l’ufficio elettorale di Bitonto si raccolgono le firme
per la proposta di legge sul “rifiuto di
trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”.
La
questione della “fine vita”, ossia l’inevitabile
tramonto della vita biologica, non poteva sfuggire a Don Ciccio Savino, parroco
rettore della Basilica dei SS. Medici e presidente della Fondazione omonima che
gestisce un Hospice . centro di Cure Palliative, da sempre in prima linea
sull’argomento. “Vorrei partire da una
citazione tratta dal libro “il dolore inutile” di Sergio Zavoli, fine e sensibile intellettuale che fu nostro ospite
qualche anno fa: “Se penso che nel nostro Paese la questione del dolore è
venuta al pettine da così poco tempo, ne traggo una grande amarezza.
L’indolenza scientifica, la lentezza burocratica, il moralismo, quanti
ammalati, quale moltitudine hanno penalizzato”. Ecco, il grande giornalista con
acutezza ha colto il centro del problema. Che fa scaturire tanti interrogativi.
Perché, al momento della “fine vita”, non far prevalere l’alleanza terapeutica fra
medico e paziente? Qual è il discrimine tra eutanasia e accanimento
terapeutico? Purtroppo, lo spostamento del baricentro della medicina dal
paziente come persona malata al paziente come corpo patologico ha accelerato il
progressivo indebolimento del delicato equilibrio tra “scienza” e “sapienza”, a
discapito di quest’ultima e non dimentichiamo che “senza la sapienza la scienza
non giova a nulla per l’uomo”, come sosteneva il filosofo Edmund Husserl”.
In
questa variegata (e un po’ triste) turbocontemporaneità, si ha l’impressione
che tutto sia oggetto e che, se un cuore si rompe, nessuno si prenda la premura
di carezzarlo dolcemente.
“Già, oggi corriamo il rischio che il
sociologo Vanni Codeluppi chiama il
“biocapitalismo”. È la forma più avanzata ed anche più subdola del modello
economico capitalistico che si caratterizza per il suo crescente intreccio con
le vite degli esseri umani verso lo sfruttamento integrale dei corpi, dei
cervelli, delle emozioni, persino delle malattie. Il paziente rischia così di
essere “cosificato”, “reificato”, reso cosa”.
Così,
quando la luce del giorno si fa fuggente e tremendo s’avvicina il buio della
notte, cos’ha da fare l’uomo?
“Tra eutanasia e accanimento, io non ho
dubbi. Scelgo le cure palliative. D’altronde, è una sfida che affrontiamo
quotidianamente dal 2007, anno di inaugurazione dell’Hospice “Aurelio Marena”. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le cure palliative affermano
la vita e vedono il morire come un processo naturale, offrono un sistema di
supporto che aiuti il paziente a vivere il più attivamente possibile fino alla
morte, offrono un aiuto alla famiglia per adeguarsi alla malattia del paziente
e per elaborare correttamente il lutto. L’obiettivo delle cure palliative è di
ottenere la migliore qualità di vita per il paziente ed i suoi familiari, che
vanno sorretti soprattutto sotto l’aspetto spirituale e psicologico”.
Non
può far paura il muro d’ombra che presto sdarà oltrepassato, perché la morte fa
parte della vita. “L’altro giorno ho
visto sorridere un ammalato di Bari, ricoverato presso l’Hospice, solo perché
gli avevano preparato una piccola teglia di riso, patate e cozze. Piccoli gesti
che danno un senso agli ultimi istanti del vivere. un altro amico, prima di
andar via, ci ha confessato di essere stato bene.Aveva incontrato gli “angeli”
nell’operato dei medici, infermieri, operatori Socio sanitari e nei volontari.
Ecco, l’Hospice non è un luogo di morte, non è un moribondaio né l’anticamera
della morte, né un ospedale, ma una “casa” dove si accompagna l’ammalato con un
approccio globale e olistico, garantendo qualità e dignità di vita, governando
il dolore e sostenendo anche la famiglia”.
“Significative, a tal proposito, le parole diCicely Saunders, donna straordinaria
che ebbe l’impareggiabile intuizione degli Hospice (Siamo nell’anno 1969 a
Londar): “Tu sei importante perché sei tu e sei importante fino alla fine”. E
ancora: “Sono stata infermiera, sono stata assistente sociale, sono stata
medico. Ma la cosa più difficile di tutte è imparare ad essere paziente”. In queste
affermazioni si può cogliere la grandezza, il valore e l’importanza delle
strutture come la nostra e delle cure palliative”, sottolinea radioso
Savino.
E
la disamina di don Ciccio prosegue, dettagliata e puntuale: “Molti sono i punti di riflessione su cui
soffermarci. La morte non è un evento da esorcizzare, da renderla tabù.
Qualcuno parla giustamente di «pornografia della morte», un fatto privato della famiglia del malato. Bisogna
coniugare sia le cure domiciliari che la residenzialità hospice per i malati
terminali. Per questo è imprescindibile passare dal guarire al prendersi cura
che consiste nella terapia nella terapia del dolore, nel dare risposte ai
bisogni psicologici, morali, spirituali, cercando e dando un senso al momento
che si sta vivendo”.
Infine,
la conclusione, pensosa e altamente condivisibile: “Aveva ragione Viktor Frankl quando scriveva che “la malattia del nostro
tempo è la nevrosi noogena”, cioè un sentimento di mancanza di senso. Trovare
il “senso” anche a ciò che può apparire terribile e disperante è la bellezza
che può cambiare la vita”.