Non solo pregnante, ma fondamentale, necessario, qualcosa insomma che riguarda tutti e che tutti avrebbero dovuto ascoltare.
Lo aggettivo senza esagerazioni l’incontro, organizzato da “Comma3”, che si è tenuto mercoledì scorso presso la scuola “Benjamin Franklin”. Titolo, “Caduti nella rete”. Perché sebbene al tavolo dei relatori ci fossero dei tecnici – Vera Gheno, sociolinguista, docente e twitter manager dell’Accademia della Crusca; Antonio Di Gioia, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Puglia; Roberto Borraccia, vicepresidente nazionale dell’associazione ‘Sentieri della legalità’ e docente di Criminologia Informatica e Don Vito Piccinonna, rettore della Basilica dei Santi Medici di Bitonto – l’argomento su cui poi si sono diffusi è stato decisamente ‘pop’: il nostro rapporto con le nuove tecnologie ed in particolare coi social network.
Il primo punto su cui tutti si sono mostrati concordi è stato questo: con i social ci hanno consegnato uno strumento di cui sappiamo poco o niente, ma che comunque, complici la gratuità, la facilità e l’immediatezza d’uso (che non corrispondono però ad alfabetizzazione digitale) e il senso comune, ci sentiamo legittimati a utilizzare.
E’ come se ci avessero regalato un bellissimo e all’apparenza innocuo giocattolo, dimenticandosi però di accompagnarlo col libretto d’istruzioni, di anticiparne le pericolose conseguenze d’un uso sbagliato, e noi poi, puntualmente, ci fossimo fatti male, o ne avessimo fatto agli altri. Trasformando quel dono in un’arma.
“I giovani in rete – ha metaforizzato la Gheno – sono dei neopatentati alla guida di una Ferrari. Ed anche noi adulti, ‘esperti’, in realtà, in termini filogenetici, verso la rete siamo ancora giovani; un mio collega dice che siamo nel ‘Medioevo dell’informazione on-line’; io credo che le cose possano migliorare, però, come prima cosa, bisogna educare le persone alla consapevolezza di quanto sia pubblico quello che si scrive on-line; ecco, per esempio, nel caso dei famosi haters, sembra che non abbiano consapevolezza di quanto largo sia il loro uditorio; bisogna far capire loro che non sono al bar sotto casa dove potrebbero permettersi di insultare la Boldrini ed essere ascoltati da cinque persone: su facebook, solo in Italia, potenzialmente potrebbero leggerli tra i 28 e i 30 milioni di utenti”.
Lo psicologo Di Gioia ha poi puntato sulla coscienza della differenza di target di riferimento, sulla necessità cioè di costruire dei significati, di calibrare linguaggi a seconda, appunto, del contesto in cui si va a scrivere: uno pubblico, infatti, richiede un approccio diverso rispetto ad un contesto privato. Fiaccando un po’, così, quel mito della sincerità, della trasparenza a tutti i costi che pare essere diventato un lasciapassare per la coscienza. Come se parlare senza filtri sempre e dovunque sia automaticamente sinonimo di autenticità, e non farlo, invece, di ipocrisia.
“Oggi – ha argomentato Di Gioia – si fa del male attraverso i social, perché sono degli strumenti troppo potenti, sia per i ragazzi sia per gli adulti: un po’ tutti vanno a contare i like sui post e sulle foto, perché tutto quello che pubblichiamo fa poi parte dell’identità reale; bisogna pensare la questione in termini di prevenzione. Una prevenzione su due versanti: il primo è insegnare a usare in maniera competente questi mezzi, e questo lo si fa nelle scuole di ogni ordine e grado; il secondo tipo di prevenzione, è quello sul tema delle relazioni nel gruppo classe, perché spesso si usa il mondo virtuale per evitare di confrontarsi nella realtà”.
Queste due non sono state le uniche prevenzioni proposte nel corso dell’incontro. Che ha saputo rendersi ricordabile per la totale assenza di risposte facili a domande complesse, di populismo da talk show cioè.
“Da madre di una figlia di 9 anni – ha testimoniato ancora la Gheno – io abituerei i bambini ad un uso consapevole del mondo tecnologico il prima possibile, perché secondo me non c’è più questa differenza così netta tra l’on-line e l’off-line, e quindi bisogna far capire loro il prima possibile che l’on-line da una parte, riflette i comportamenti che uno ha off-line, dall’altra ha questo enorme effetto disinibente, ed è chiaramente più facile odiare la persona che tu non vedi in faccia”.
Un intervento che ha permesso al moderatore, il giornalista di TgNorba24 Antonio Procacci, di coinvolgere gli ospiti su un altro punto su cui si sono mostrati tutti d’accordo: la caduta d’una distinzione netta tra vita virtuale e vita reale. Suona quasi anacronistico ormai, superato, quando qualcuno, in un ragionamento su questi temi, risolve gli spigoli dell’approccio ai social dicendo di preferire la vita vera, quella off-line, ‘che io le persone le voglio guardare in faccia quando parlo’. Come se il rapporto tra le due vite debba correre categoricamente parallelo, distante, dualistico. Come dire: delle due, per forza l’una. Al contrario, almeno un segnale, un esempio concreto, dimostra quanto la linea di demarcazione tra le due vite sia sempre più scolorita.
“I profili sui social – ha iniziato il dottor Borraccia – cioè la nostra cittadinanza digitale, rappresentano le chiavi di casa: i genitori cosa dicono ai figli quando danno loro le chiavi? ‘Non le perdere’: perché la stessa attenzione non può essere posta nei confronti di tutto ciò che rappresenta la nostra identità di cittadinanza digitale? L’articolo 625 del Codice Penale è parente al 624, cioè violazione di domicilio, perché il legislatore, più di 25 anni fa, ha capito che la nostra posta elettronica è qualcosa di simile al nostro domicilio privato”.
Ancora in questa direzione inclusiva è andato l’intervento di don Vito Piccinonna nel momento in cui ha nominato il ‘Manifesto della comunicazione non ostile’: una decina di principi etici attraverso cui ci si impegna ad osservare, nella comunicazione social, alcune regole di buon senso. “Penso che sia una sfida – ha commentato il sacerdote – quella di far sì che anche i social si attrezzino per accogliere determinati valori. Per la mia esperienza, vedo tante possibilità in questi strumenti, però vorrei evitare che si creassero schizofrenie o dualismi che portano a casi di vite parallele o di esclusione forzata dalla rete”.
Ed è proprio sul Manifesto, sulla necessità di una sua lettura e di una sua interiorizzazione, che si è concluso il confronto. Concluso solo momentaneamente, s’intende: vista la materia, infatti, la presa di consapevolezza richiederebbe il contributo continuo di ognuno di noi; possibilmente senza deliri da tuttologi e con lo scopo, se non proprio di ritrovarlo, magari di codificarlo quel libretto d’istruzioni.