Sospetto che Francesco l’amasse anche per il nome: Marina.
Sì, oltre alla figura eterea e direi quasi celestiale, che non impediva al carattere d’essere ferreo e pertinace, il celebre maestro della chiaria milanese penso l’adorasse perché gli rievocava struggenti paesaggi, alberi di barche dondolanti sul mare melodioso, sartie sospese in un silenzio malinconico, case variopinte illuminate da un cielo azzurrino solcato piano da una diafana nuvola…
Di Marina Speranza, la moglie e musa ispiratrice di Francesco, il più grande pittore del Novecento nostro – insieme vivevano a Milano, però respiravano estate a Santo Spirito -, deceduta ieri, ricordo soprattutto una frase pronunciata con rabbioso amore, durante una delle commemorazioni dedicate al consorte: “Ecco, quando passate dinanzi al monumento che ricorda mio marito, posate un fiore così mi farete sentire meno sola“.
La sua era una giusta polemica colma di passione, perché, al di là dei soliti concittadini di buona volontà inclini per profonda cultura a non dimenticare, la smemoratezza dei bitontini, specie nei confronti di chi davvero merita, è proverbiale.
Nicola Pice, uno da annoverare fra i grati memori, ha ricordato “la sua indomabile energia con queste parole dello scrittore Raffaele Nigro: “L’ultima volta che venimmo a Santo Spirito – dice Marina lisciandosi i capelli tirati sulla nuca – aprii il balcone e lo studio si riempì di luce. Feci: “guarda Francesco, guarda quante vele oggi sul mare”: Ma Francesco non veniva. Io insistetti più volte, sapevo quanto fosse legato a quel panorama che preferiva persino alla campagna bitontina, perché appena arrivava aprile non riusciva più a resistere a Milano, doveva scendere, al Sud. Lui mi raggiunse piano piano, io lo sentii alle mie spalle, mi toccò appena un braccio e mi rivelò una cosa di cui non mi ero ancora accorta: “scusami, non volevo dirtelo, ma da qualche tempo non ci vedo quasi più”. Io non gli chiesi spiegazioni, si verificava ormai nel suo fisico una sorta di progressiva decadenza, ingoiai amaro e cominciai a descrivergli il panorama, come se dovesse dipingere con la mente il quadro più importante della sua vita”. …”Ecco, quel quadro gliel’ho finito io – aveva detto Marina indicandomi una chiazza di colore incorniciata a fianco del balcone -. L’aveva lasciato a metà e io vi ho incollato sopra un paio di pennelli”. Con la naturalezza gentile che parlava del legame tra la donna e il suo uomo. Un uomo che è ancora dappertutto nella casa. …Marina, che ha saputo difendersi dagli attacchi del tempo, ride vivacissima e si commuove, per riprendersi all’istante e affondare in qualche cunicolo del ricordo, nei giudizi appassionati, nelle citazioni affettuose di amicizie, Michele e Cettina, Carlino e poi Francesco, Francesco…“.
“Grazie, Marina, per il dono della tua gioiosa amicizia e per il tuo forte legame con questa nostra agra città dell’ulivo“, ha concluso il Prof.
Ripenso, ora, in questo momento di grande e carsico dolore, ad alcuni amici e allievi di Speranza.
Enzo Morelli, con i suoi ulivi dolenti e umani.
Franco Sannicandro, con la sua arte che si fa pensiero e storia.
E Francesco Paolo Del Re, il proprietario della “Casa vuota” più piena di sogni che ci sia al mondo, uno dei quali onirici progetti sono sicuro sia dedicato proprio a Francesco Speranza riletto attraverso il cuore di Marina.
Sono loro tre che mi fanno persuaso che non tutto – e per tutto intendo il magistero di Speranza e la lezione di sua moglie Marina – sia perduto…