Seduta, l’ho sentita sussurrare «Quella maschera sono io. Sono nera bianca,
felice e gioconda, triste e lacrimosa», con al centro una lamina dorata,
quella della pennellata del cuore, vera e pura.
Un’anima dalla doppia natura,
come tutti noi probabilmente, quella della pittrice Cecilia Mangini che lo scorso sabato ha inaugurato la sua mostra
personale presso Mariarte, galleria
in via Ravanas di Maria Cucinellagrazie anche all’apporto di Nicola
Abbondanza e il suo “Cenacolo dei
poeti”.
Siano piume leggere e bianche che
occupano la tela scura fatta d’ombre e paure mannare, o brune e meste sulla
candida luna che seppur piena, all’apice della sua crescita risulta divisa come
la doppia anima che sembra trasparire in tutta la poetica di Cecilia.
Cecilia, appunto, che come
suggerisce il giornalista Marino Pagano,
è «nome musicale per tante ragioni,
dunque finemente votato agli accordi celesti e alle armonie tra le ansie».
Luoghi del cuore ma anche dell’anima:
una sedia vuota davanti ad una finestra piena di luce tra le ombre dell’assenza.
Un’assenza che torna in una valigia lasciata in un angolo abbandonata assieme
ad un paio di scarpette rosse, quasi fossero quelle della piccola e sognante
Doroty.
Il dubbio assale anche Pagano: «Procede, ad esempio, con gli interrogativi
che lasciano due scarpe rosse e una valigia: dov’è il corpo? Dove la storia?
Dove la vita? Rinata, forse?
Abbandonata? Cambiata? E procede
con le lacrime».
«Lacrime anch’esse struggente rimando alla Bellezza. Perduta? No, preferiamo sia una
Bellezza da cercare. Tra
tentativi, errori, cadute. Forse,
tra piume al vento che dicono un’estasi come d’amaca fluttuante, come di
affannosa e allo stesso tempo dondolante ricerca».
«Un’artista originale, anticonformista, indipendente,
espressione delle inquietudini e della voglia di libertà del nostro secolo – così l’ha presentata Fiorella Carbone, moderatrice della serata – . La sua pittura è l’espressione di un racconto di emozioni, di un portare
fuori con abilità tutto l’interiore, di affidare alle pennellate il dilemma del
tutto e del suo contrario».
Si spera nella Bellezza, quella con la B
maiuscola, come quella che per Dostoevskij avrebbe dovuto salvare il mondo.
Quella che resta tra le trame degli occhi, dell’osservare
e del vivere, dell’immedesimarsi come viaggiatori, cercatori di gigli selvatici
e in continua attesa della luce.
Come quella che filtra da una porta al mare, in
legno, e ci illumina il cuscino al mattino assieme al profumo di salsedine.
Come la luce che abbiamo custodita nel profondo
tra le mille maschere di pirandelliana memoria.