Ci sono diversi modi per ferire una persona. Si può premere un grilletto, si può infierire con una lama. Oppure si può ferirlo con un semplice click con il tasto sinistro del mouse sul comando “Condividi”, presente su tutti i social network. Una funzione creata appunto per condividere una notizia, una riflessione su cui concordiamo, una foto che vogliamo mostrare. Ma che può essere utilizzata per diffondere in modo virale accuse infamanti, donando più credibilità e maggior condivisione a quello che un tempo era semplice, anche se già potenzialmente pericoloso, chiacchiericcio da bar che si diffondeva con il solo passaparola.
Ed è quello che accaduto in questi giorni ai danni del professor Giuseppe Cannito, accusato da ignoti irresponsabili di essere stato l’autore dell’omicidio Muscatelli. E così, una brava persona, uno stimato docente, si è ritrovato con le tante dita puntate contro di lui, tante bocche che gli imputavano un crimine mostruoso come l’assassinio di un ragazzo. Per fortuna la stampa, il sindaco e le forze dell’ordine con il loro lavoro hanno in poco tempo smentito queste insinuazioni, diffondendo la verità sui drammatici fatti del 16 agosto.
Ma, a mente lucida, una riflessione va fatta. Perché quello che nasce come uno scherzo, una ripicca o semplice voglia di improvvisarsi giustizieri, può portare a conseguenze imprevedibili e tragiche.
Tralasciamo Bitonto per spostarci a Collecchio, un piccolo comune in provincia di Parma. Qui, qualche mese fa, un ragazzo di 24 anni di nome Alfredo, si ritrovò bersagliato di insulti e minacce perché qualcuno aveva diffuso sulla rete un messaggio che lo accusava del più infamante dei crimini, la pedofilia. Un’immagine scaricata dal suo profilo Facebook, con una didascalia che invitava a segnalarlo e a rendere note ai più le sue perverse abitudini sessuali (ovviamente inventate) aveva cominciato a diffondersi in modo virale, raggiungendo migliaia di visualizzazioni. In breve gli è toccato difendersi da sconosciuti che, improvvisandosi poliziotti e magistrati allo stesso tempo, credendosi Charles Bronson in “Il giustiziere della notte”, si sono sentiti in dovere di rovinargli la vita, con offese e minacce di morte. E qualcuno ritenne anche opportuno devastare il bar di sua proprietà, imbrattando le vetrate con la scritta “pedofilo”. Dati i tempi biblici necessari alla giustizia per scovare l’autore della bufala e fermarne la diffusione, Alfredo fu costretto ad assumere hacker per individuare il delinquente e diffondere, in maniera altrettanto virale, la smentita a quelle accuse. Del caso si parlò anche nella trasmissione televisiva “Le Iene”.
Alfredo ha avuto la forza di lottare. Ma cosa potrebbe succedere se, ad essere vittima della gogna mediatica, sia qualcuno che quella forza non ce l’ha? Cosa potrebbe provocare, in una persona psicologicamente più debole, l’essere bollato da tutti come un mostro, l’essere continuamente insultato, minacciato? Lasciamo ai lettori la risposta.
Da questa situazione è difficile tornare indietro. È un processo sommario in cui non esistono assoluzioni, ma solo condanne. Una volta che la bufala viene lanciata nella piazza virtuale, il marchio d’infamia rimane, grazie ai tanti che, per pigrizia, per non prendersi il fastidio di consultare giornali, riflettere su quel che leggono e farsi un’idea propria, preferiscono spegnere l’intelletto e bersi acriticamente qualsiasi sciocchezza trovino sul web. E così, un’immagine creata senza troppa fatica con Photoshop, diventa più credibile, agli occhi di questi internauti irresponsabili e poco intelligenti, di un articolo di giornale scritto da chi perde tempo a cercare fonti, verificarne l’autenticità e trovare il modo più adatto per raccontare la notizia. Preferiscono limitarsi a fare un click su “Condividi”, credendo di fare del bene alla comunità, ma ignorando di essere complici di un criminale che, per i motivi più disparati, ha deciso di rovinare la vita di un altro.
Chi contribuisce alla diffusione della bufala non ha la minima idea della cattiveria di cui si rende responsabile. Ogni condivisione, ogni click equivale ad una pugnalata inferta ad una persona innocente. E, come in un vero accoltellamento, più aumentano le pugnalate, più è improbabile che si possa rimediare al danno inferto. Le parole infamanti continuano inesorabilmente a girare e non è sempre facile far capire alle persone la verità. «L’ha scampata solo perché ha avuto un buon avvocato» penserà qualcuno, continuando a puntare il suo dito contro un innocente, pur di non ammettere il proprio errore. «È libero perché la giustizia italiana non funziona» penserà qualcun altro.
E non ci si nasconda dietro la buona fede. Di buone intenzioni è lastricata la strada per l’inferno, recita un detto. Dunque ripartiamo dalla vicenda del professor Cannito per interrogarci e farci un esame di coscienza. Quante volte abbiamo giudicato qualcuno sulla base del sentito dire? Quante volte abbiamo etichettato con epiteti poco piacevoli persone che neanche conosciamo?
E le condanne lasciamole alla magistratura, che per quanto fallibile (è pur sempre un’istituzione composta da esseri umani che, per natura, possono sbagliare), sarà sempre più attendibile di un leone da tastiera che affida alla tastiera di un pc lo sfogo delle sue frustrazioni, la sua voglia di ergersi a moralizzatore.