Nel 1991 iniziò a cadere un altro dei pilastri su cui si reggeva la Prima Repubblica: la legge elettorale. Fu l’anno, infatti, del primo referendum abrogativo riguardante il tema.
Ad essere sottoposta a voto referendario, la possibilità, per l’elettore, di esprimere, alle elezioni politiche della Camera dei Deputati, fino a tre preferenze. Al suo posto, si chiedeva, da parte del movimento referendario, la preferenza unica.
Un dibattito, quello sulla riforma elettorale, iniziato già alla fine degli anni ’80, quando si iniziò ad ipotizzare la necessità di traghettare, tramite la modifica del sistema di voto, un nuovo sistema politico che avrebbe spazzato via una partitocrazia vista, in una narrazione sempre più diffusa, come nemica dell’Italia. Una nuova narrazione, di stampo liberale, che indicava nella riforma elettorale la chiave per uscire dalla crisi dello Stato e che, in una sempre più diffusa ottica neoliberale imperante anche nei partiti di sinistra, auspicava un sistema ispirato al modello Westminster. Una narrazione ostile ai partiti, visti come corrotti e poco rappresentativi, agenti di corruzione e malaffare nonché casta in difesa di privilegi corporativi.
Già all’inizio del 1988, dopo discussioni iniziate negli anni precedenti, il democristiano Mario Segni, insieme ad altri 30 tra economisti, sindacalisti, esponenti del mondo della cultura (fra i firmatari ci furono Umberto Agnelli, Rita Levi-Montalcini, Carlo Bo, Luca Cordero di Montezemolo, Antonino Zichichi) redasse il Manifesto dei 31, un documento che chiedeva una legge elettorale uninominale a doppio turno pensata sulla base del modello francese. L’iniziativa ebbe consensi sempre maggiori tanto che, nello stesso anno, a Roma, nacque il Movimento per la Riforma Elettorale, che raccolse all’incirca 130 personalità, di cui molti erano esponenti delle due camere del Parlamento italiano. Nel 1990 furono depositate, alla Corte di Cassazione, tre richieste di referendum abrogativo. Il primo era finalizzato ad eliminare, nella legge elettorale per il Senato, la norma che rendeva i 238 collegi uninominali effettivi solamente se un candidato avesse raggiunto il 65% dei suffragi. Il secondo, di cui abbiamo già accennato, voleva l’abrogazione della preferenza plurima, per evitare il fenomeno delle cordate tra i candidati e, quindi, scongiurare fenomeni corruttivi nella ricerca dei consensi. Il terzo referendum chiedeva l’estensione del sistema elettorale maggioritario che disciplinava i Comuni con popolazione inferiore ai 5mila abitanti anche a quelli con una popolazione maggiore.
Ad essere accettato fu solamente il secondo referendum, che si tenne il 9 e il 10 giugno e fu accolto, dal corpo elettorale, a larga maggioranza. A votare per l’abrogazione delle preferenze plurime fu il 95,57% della popolazione votante italiana, mentre solamente il 4,43% si schierò in maniera contraria.
A Bitonto, la percentuale di favorevoli alla preferenza unica fu anche superiore, raggiungendo il 96,5%, a fronte del 3,6% di contrari. Tra le forze politiche che si erano schierate a favore dell’abolizione del plurinominale, il Partito Liberale Italiano, il Movimento Sociale Italiano, i Verdi, il Partito Repubblicano Italiano, il Partito Socialista Democratico Italiano e gli eredi del Partito Comunista, che si erano ritrovati, nei mesi precedenti, nel nuovo Partito Democratico della Sinistra. I voti contrari, come sottolineò il “da Bitonto”, riportando i risultati delle urne, erano attribuibili ad una parte degli elettori del Partito Socialista Italiano e della Democrazia Cristiana.
A votare si recò il 64,4% della popolazione, segno di una tendenza all’astensione che interessava, in particolar modo, quello strumento referendario che, nei due decenni precedenti, avevano visto un’altissima partecipazione.
La vittoria del referendum fu, come già accennato in apertura, il primo passo verso la riforma elettorale che, nel ’93, avrebbe posto definitivamente fine ad oltre 40 anni di proporzionale. E fu anche un segno di come, rispetto ai decenni precedenti, i tempi fossero cambiati e la crisi politica avesse raggiunto livelli mai visti prima e l’ostilità ai partiti era diventata endemica. Persino a sinistra, dove la cultura partitica era sempre stata storicamente molto radicata, si auspicava il maggioritario per spezzare il potere di quei partiti che erano stati strumento del loro radicamento. La fine della Prima Repubblica era ormai vicina.