«Gli studenti sono bravi, finché chiedono e protestano per il banco, ma, quando mettono in discussione la scuola e ciò che rappresenta, sono additati come sobillatori dei “bravi ragazzi e della gioventù”».
Scriveva così, il 15 dicembre 1985, sulle pagine della Gazzetta del Mezzogiorno, nello spazio dedicato alle lettere dei lettori, un gruppo di studenti di Bitonto. Una lettera inviata al principale quotidiano del Sud Italia per denunciare quanto accaduto nelle scuole cittadine: «Quando si alza il tiro e si mette in discussione il sistema di potere dei professori e dei partiti, che sono alle loro spalle, si scatena il caos. Lo stesso caos che è successo nella nostra città di Bitonto, dove, solo perché gli studenti, organizzati autonomamente e autogestiti, hanno voluto discutere di questioni come didattica, vere prevaricazioni e metodi coercitivi, sono stati colpiti da provvedimenti: è stato impedito loro di parlare in assemblee studentesche e sono stati bersagliati da varie forme di pressione e intimidazione».
Ma cosa era successo?
Nell’autunno del 1985, quando ripresero le attività scolastiche, in Italia sembrò quasi di rivivere le proteste studentesche dei due decenni precedenti. Un risveglio brusco dopo che, nei primi anni Ottanta, gli studenti e tutte le categorie sociali protagoniste delle lotte del decennio precedente non avevano dato vita a grandi manifestazioni come quelle del ’68 e del ’77. Un clima non paragonabile di certo alle due fasi storiche citate, ma comunque una novità, quasi, dopo anni di quiete.
Questa nuova ondata di mobilitazioni, fatta di occupazioni e manifestazioni di strada, non senza, talvolta, disordini, iniziò ad ottobre, in segno di protesta contro la mancanza di aule, di insegnanti e di strumenti didattici. Partì da Milano e si estese rapidamente in tutte le regioni. Sotto accusa la legge finanziaria che, in quel momento, era in discussione in Parlamento, che prevedeva drastiche riduzioni delle spese sociali dello stato ed aumenti di prezzi di svariati servizi, oltre ad un forte aumento delle tasse universitarie.
«A Napoli, Torino e Genova, nelle grandi città come nei centri minori, ieri, gli studenti del Movimento ’85, sono tornati in piazza. E dove non si sono svolti cortei è stata una giornata di assemblee, mentre dilaga il fenomeno delle “autogestioni”» riferiva, il 7 dicembre 1985, la Repubblica.
«Più aule, meno tasse» uno degli slogan degli studenti, le cui manifestazioni furono parallele a quelle dei lavoratori contro la politica economica e finanziaria del governo Craxi e contro il taglio della scala mobile.
«Non tagliateci la scuola» era un altro slogan degli studenti, critici verso la politica della ministra della Pubblica Istruzione Franca Falcucci.
Gli studenti furono appoggiati da parte della sinistra, in particolare da Democrazia Proletaria, mentre molto più tiepida e titubante fu la posizione del Partito Comunista Italiano. Più ostili, ovviamente, furono le forze di governo.
Ma, ormai, gli anni delle forti tensioni ideologiche erano alle spalle e le manifestazioni studentesche di metà anni ’85 furono diverse dalle precedenti mobilitazioni. Non più grandi aggregazioni che nascevano su basi ideologiche, ma sulla base di critiche a provvedimenti specifici, come fu appunto il progetto di legge della ministra Falcucci. Nacquero partendo da bisogni materiali, come l’opposizione ad una tassazione ritenuta eccessiva, la richiesta di più risorse da destinare alla scuola. Una caratteristica che continuerà a caratterizzare anche le ondate successive, come quella del ’90.
«La scuola deve tornare ad essere al centro dell’attenzione di tutti ed essere finalmente considerata un ricco investimento produttivo. Purtroppo ci volevano gli “studenti dell’85” per far balzare sotto gli occhi dei politici, dei sindacati, dell’opinione pubblica il “Problema scuola”» scrisse l’allora preside del Liceo Scientifico Michele Giorgio sulle pagine del “da Bitonto” nell’edizione di novembre dicembre 1985: «Mi auguro che il tutto non si riduca nello spazio di una fugace fiammata, che l’interesse perduri e che non si limiti soltanto allo stanziamento di 4mila miliardi per l’edilizia scolastica, ma che abbracci la qualità della cultura, l’aggiornamento dei contenuti, la professionalità docente, lo sblocco occupazionale».