Abbiamo raccontato, nella precedente puntata, del Movimento del ’77 e di come esso rappresentò il capitolo finale di quel variegato e lungo periodo di contestazioni che fu il Sessantotto. Il Movimento, infatti, verso la fine degli anni ’70 si esaurì, lasciando il posto alla miopia della violenza terroristica, ad un innalzamento della tensione, ad una maggior repressione da parte delle forze dell’ordine e al successivo reflusso dei movimenti che apre la stagione del disimpegno che caratterizzò gli anni ’80.
«Il ‘77 fu il mastodontico funerale di un sogno di rivoluzione che rivoluzione non poteva essere» è il giudizio che, di quel periodo, ha Gino Ancona, storico militante anarchico e, dunque, esponente di una componente importante di quel decennio di contestazioni. Una componente che, a Bari, poteva fare affidamento su un gruppo molto attivo. Fu dal capoluogo pugliese che, infatti, partì l’esperienza dell’Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica, o, per usare un acronimo, dell’Ora, da leggere con l’accento sull’ultima lettera perché così i militanti intendevano sottolineare come essi partissero dall’esperienza dell’anarchismo francese.
Ma andiamo con ordine e facciamo un breve salto indietro, per fare un breve cenno alle origini dell’anarchismo e delle varie correnti in cui si diversifica al suo interno. L’anarchismo affonda le proprie radici nella seconda metà dell’800, dall’esperienza dei comunisti libertari e dei comunisti anarchici o anarcocomunisti. Tra i primi ad accostare comunismo e anarchia fu il barlettano Carlo Cafiero: «Vogliamo la libertà, cioè l’anarchia, e l’uguaglianza, cioè il comunismo».
Ma le origini dell’anarchismo risalgono anche all’esperienza della Comune di Parigi, quando, nel 1871, a seguito della lunga e disastrosa guerra franco prussiana, la popolazione parigina insorse contro il potere centrale ed elesse direttamente un governo cittadino, sopprimendo il Parlamento. Esperienza che sarà spazzata via dalle armi dell’esercito francese. Un fallimento che fu alla base della prima divisione, nel campo anarchico, sulla strada da seguire per realizzare la rivoluzione, tra chi sostiene che l’azione debba basarsi su azioni spontanee e di massa, ma senza il bisogno di un’organizzazione, vista come simbolo di autoritarismo, a chi ritiene necessaria un’avanguardia, rappresentata da un partito organizzato. Due visioni diverse, accomunate dal rifiuto del parlamentarismo.
Divergenze che furono anche alla base della distanza che separava gli anarchici e i comunisti leninisti e che si trasformò in Ucraina, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, e durante la guerra civile spagnola, in ostilità che portarono alla sconfitta dei primi.
Ma veniamo in Italia, dove, nel primo dopoguerra, scioperi e agitazioni bloccarono le fabbriche e i campi agricoli. Il proletariato italiano, colpito dalle pesanti conseguenze economiche della guerra quinquennale, protestò prendendo come riferimento i rivoluzionari russi e cominciando ad autogestire le fabbriche attraverso consigli ispirati al modello dei soviet. Fu il cosiddetto “biennio rosso”, in cui gli anarchici ebbero un ruolo importante. Come lo ebbero anche nella lotta al fascismo.
Già all’indomani della Prima Guerra Mondiale, nel ’19, nacque la prima organizzazione politica anarchica italiana: l’Unione Comunista Anarchica d’Italia, diventata Unione Anarchica Italiana, quando, nel ’20, il Congresso di Bologna approvò il Programma anarchico di Errico Malatesta, che accoglieva le diverse correnti dell’anarchismo, dagli individualisti ai comunisti. Questi ultimi si differenziavano dai comunisti leninisti perché per essi l’organizzazione politica non era una dirigenza riconosciuta ed istituzionalizzata che si poneva in rappresentanza degli interessi di classe, ma aveva solamente un ruolo di motore dell’azione politica delle masse, della rivoluzione. Doveva solamente preparare quest’ultima. Una differenza sostanziale che pone i comunisti anarchici molto lontano dai partiti comunisti fortemente strutturati e dotati di una forte gerarchia.
Per gli anarchici, dunque, gli anni ’70 furono un ennesimo banco di prova, una nuova occasione di attuare quella rivoluzione che in Ucraina e in Spagna era fallita. Un nuovo banco di prova anche dopo la caccia all’anarchico subita dopo l’accusa, errata, di essere responsabili delle bombe alla Fiera di Milano e alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, in un clima che portò alla morte di Giuseppe Pinelli. E dopo la crisi degli anni ’60, culminata nella scissione del 1965 dei Gruppi di Iniziativa Anarchica dalla Federazione Anarchica Italiana. Il movimento anarchico assistette ad una notevole crescita, grazie al Sessantotto e alla sua carica antiautoritaria, che favorì l’afflusso di giovani militanti provenienti dal mondo studentesco e da quello operaio. Mondi che, a partire dalla fine degli anni ’60 diedero avvio alle ben note contestazioni. Si moltiplicarono sedi, circoli, gruppi, federazioni a carattere cittadino e regionale, dentro e fuori le organizzazioni a carattere nazionale.
Un ruolo importante in questa crescita dei movimenti anarchici lo ebbe la città di Bari. Fu qui, infatti, che si costituì, nel 1974, l’Organizzazione Anarchica Pugliese (Oap) che, due anni dopo, cambiando il nome in Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica, si espanse in diverse regioni italiane, trasformandosi, con il congresso nazionale del ’78, che si tenne nel capoluogo, da organizzazione regionale a organizzazione nazionale. Una storia che vede la Puglia protagonista fino all’85, quando l’Ora, scomparendo dal territorio che l’ha generata, si unì ad altre organizzazioni minori per dare vita alla Federazione dei Comunisti Anarchici.
Ne racconta la storia, attraverso documenti, fotografie e interviste, il libro “Gli anarchici di Piazza Umberto. La sinistra libertaria a Bari negli anni ‘70”, scritto nel 2011 da Luca Lapolla. Il volume è un viaggio negli anni della contestazione a Bari, vista, però, dagli occhi della componente anarchica.
Il ’74 fu l’anno del primo Congresso regionale dell’Organizzazione Anarchica Pugliese, che riunì i gruppi regionali che furono espulsi dalla Federazione Anarchica Italiana. Gruppi espulsi insieme a tanti altri in tutta Italia, a causa di divergenze interne. L’accusa fu, infatti, quella di voler trasformare la Fai in un’organizzazione orientata e federata fondata sull’unità teorico-strategica e sulla responsabilità collettiva, sull’impronta della Piattaforma dei Comunisti Anarchici del ’26, un documento redatto dagli anarchici ucraini sfuggiti alla repressione bolscevica ed esuli a Parigi, che si riunivano attorno alla rivista mensile Delo Truda e che sottolineava la necessità di un’organizzazione (vista però con sospetto da un’altra grande corrente dell’anarchismo, quella non comunista, che paventava rischi di dirigismo, tipico dei partiti politici). L’Oap, dunque, rientrava in quella corrente definita “comunista anarchica”, che privilegiava la tesi della “responsabilità collettiva”, contrapponendosi ad altri gruppi libertari come la Federazione Anarchica Italiana, secondo cui che le decisioni prese a maggioranza dovevano coinvolgere solo chi le sostiene, senza implica necessariamente l’accettazione da parte della minoranza non concorde. Concetto che, come viene spiegato nella recensione al libro sul sito del Centro di Documentazione Franco Salomone di Fano (che raccoglie diversi documenti relativi alla vita del movimento anarchico pugliese), insieme unitamente alla rigida divisione tra militanti e simpatizzanti operati dall’Ora, fu alla base dell’uscita, nel 1978, di gruppi come quello di Molfetta e di numerose altre individualità, come il nostro concittadino Gino Ancona «da sempre ipercritico verso ogni forma di verticalizzazione decisionale e ancora attivo – sia pure in modo estremamente conflittuale – nel movimento libertario» che non hanno mai condiviso i postulati della già citata Piattaforma di Arshinov. Postulati che portarono persino alla nascita, nell’81, del Pai, il Partito Anarchico Italiano, giudicato, dalla componente libertaria degli anarchici, un’aberrazione.
L’Oap istituì sezioni nelle più importanti città della Puglia, tra Bari, Molfetta, Altamura, Bisceglie, Barletta, Taranto, Foggia, e si caratterizzò per un forte e sentito intervento nel sociale. Fu parte attiva nell’istituzione e nella gestione di comitati di quartiere, coordinamenti studenteschi nelle scuole superiori e nelle università, di organizzazioni tra gli studenti fuori sede.
Storica sede, per anni, fu il civico 57 di via Nicolai, nelle vicinanze di piazza Umberto, la piazza che, tra gli anni ’60 e i ’70, fu il cuore pulsante dei giovani contestatori, degli alternativi, dei rivoluzionari e di tutta la sinistra barese. Fu il “giardino della rivoluzione” come lo definisce, nella prefazione all’opera di Lapolla, l’anarchico Donato Romito: «Situata nel cuore del borgo murattiano, a breve distanza dalla stazione ferroviaria ed abbastanza distinta da altre piazze su cui si affacciavano i palazzi del potere statale e locale, piazza Umberto abbracciava tutta la sinistra barese, dai cosiddetti “fricchettoni” ai serissimi militanti marxisti leninisti, dai giovani figgicini (membri della Figc, Federazione Italiana dei Giovani Comunisti, ndr) del Partito Comunista a Lotta Continua, dagli studenti universitari agli anarchici. […] Questo era lo spazio politico a cielo aperto per accesi dibattiti e informali incontri. […] Perché tutta la città sarebbe passata di là. In questa piazza è cresciuta ed è passata una generazione di giovani e di militanti che hanno creduto di vedere la rivoluzione così da vicino da festeggiarne i successi e poi piangere amaramente i propri morti».
Testimonianze dell’attività degli anarchici baresi si hanno già a partire dal ’71, specialmente al liceo artistico e nel quartiere San Paolo, luogo di un’importante manifestazione in cui si volle spingere gli inquilini a non pagare il fitto finché non avessero risolto una serie di problemi che affliggevano una zona periferica come quella.
«E lì avemmo il porta a porta» ricorda uno degli anarchici intervistati nel volume. Sempre nel ’71, il 14 marzo, per l’esattezza, si ebbe un primo convegno che sancì la nascita del gruppo anarchico di Bari.
Quello dell’occupazione fu uno dei metodi di protesta adottati dai manifestanti anarchici, che, spiega l’autore del volume, puntano alla costituzione di organismi di massa ovunque ci sia una concentrazione naturale di proletari: nei quartieri, nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro. Per l’Oap prima e l’Ora dopo, infatti, era necessario un collegamento tra scuola e quartiere, perché in questi luoghi vi era, a loro modo di vedere, un’analogia tra le modalità di oppressione attuata dalla classe dominante: «La lotta contro la selezione nella scuola è una lotta che coinvolge il quartiere stesso, in quanto, oltre a colpire soprattutto i figli dei proletari, tocca i problemi dell’edilizia e dei trasporti (elementi, nell’ottica comunista anarchica, dello sfruttamento indiretto, quello sfruttamento, cioè, che avveniva al di fuori del luogo di lavoro, ndr)».
Gli anarchici lottavano per la condizione degli operai nelle fabbriche, per quella dei residenti nei quartieri periferici, alle prese con gravi mancanze dei servizi, e per quella degli studenti, tra i cui problemi, ad esempio, c’era spesso la carenza e la fatiscenza degli alloggi.
«La soluzione proposta dai comunisti anarchici, in attesa della rivoluzione (ma anche per prepararla), è quella del rifiuto netto di qualsiasi forma di delega di potere, di decisione, per sostituirlo con l’azione diretta, dando quindi all’assemblea generale tutto il potere».
Un rifiuto netto che porta a scagliarsi contro l’istituzione, nelle scuole, dei consigli di classe di istituto, e, nei quartieri, contro quella dei consigli circoscrizionali o consigli di quartiere, visti come un contentino per dare l’illusione di una democrazia dal basso, ma in realtà con il solo scopo di sottrarre alcune funzioni amministrative al potere centrale, solo per permettere alla borghesia locale di accedere ai privilegi legati alla gestione di esse. Organi con poteri limitati, creati dall’alto, in cui i cittadini possono sì partecipare, ma avendo pur sempre qualcuno che, sopra di loro, decide realmente. Il male maggiore, per gli anarchici, che vedono nello stato che fa queste concessioni riformiste un “lupo travestito da agnello”.
Da quest’ultimo punto di vista, risposta alternativa a questa “minaccia riformista” furono, per gli anarchici, i comitati di quartiere, che in quel periodo si diffusero in tutta Italia e anche a Bari. In particolare, dall’autore vengono citate le esperienze dei quartieri baresi di San Pasquale e San Marcello. Attraverso questi comitati, sottolinea il ricercatore, gli anarchici si impegnavano in quello che ritenevano il percorso per creare una sempre maggiore coscienza di classe, unendo alla normale attività politica, un’attività che li vedeva impegnati nell’aiutare i residenti con servizi di consultorio, di doposcuola, con organizzazione di spettacoli e tanto altro. Ed era anche un modo per affrontare un’altra grande questione cara al movimento anarchico: il problema abitativo e le condizioni in cui vivevano molti cittadini appartenenti alle classi meno agiate, che avevano difficoltà spesso ad accedere all’edilizia popolare, vivevano in edifici in cui mancavano o erano carenti i servizi di manutenzione e in quartieri ghetto dove spesso erano carenti servizi come fogne, strade, asili, scuole, verde e persino ambulatori, tanto utili anche per assistere le donne (causa, quest’ultima, tanto casa alla parte femminista del movimento anarchico).
Ovviamente, l’attività degli anarchici passava anche per la redazione di riviste e bollettini ufficiali sull’attività della sezione. Documenti oggi conservati a Fano, da cui l’autore del già citato volume ha attinto per ricostruire la storia dell’anarchismo barese. Una storia che inizia la sua discesa verso la fine degli anni ’70 a causa di quelle che l’autore chiama le “tre R”. La prima è il riflusso che porta al disimpegno degli anni ’80, che priva gli anarchici (e non solo loro, ovviamente) di sempre più giovani, non più interessati alla militanza politica, impedendo un naturale ricambio necessario con la crescita di molti vecchi militanti, alle prese con le incombenze della vita. La seconda è la repressione seguita al terrorismo. Quest’ultimo, in questa ottica, ha avuto la grave colpa di innalzare talmente tanto la tensione da spingere lo stato e le forze dell’ordine a reagire con sempre maggiore forza e da allontanare sempre più ragazzi. La terza R è rappresentata da Reagan, simbolo dell’affermarsi di una nuova egemonia liberista.
Della variegata galassia anarchica fece parte (e continua ancora oggi), come abbiamo già anticipato, il bitontino Gino Ancona, ricordato, nel volume, nelle interviste a storici militanti dell’anarchismo barese.
«Poi c’era Gino Ancona, detto “l’assassino”, perché ha questo atteggiamento guerriero, anche se non farebbe male ad una mosca. Lui è un individualista» ricorda Luciano Sepe, mentre Giuseppe Carbonara, ricordando le divergenze sulla separazione tra militanti e simpatizzanti e, in generale, sul ruolo dell’organizzazione, ricorda: «Ci furono scontri politici: io, Tonio Giacchetti, Tonio Prisciandaro, Gino Ancona … eravamo persone cui non andavano bene queste storie e quindi contestavamo questa posizione. Spesso nel movimento ci trovavamo ad avere posizioni diverse dai militanti dell’Ora».
L’impegno di Gino Ancona è ricordato anche in un altro volume sulla storia dell’Organizzazione Anarchica Marchigiana, attraverso un’intervista in cui il bitontino è descritto come «un anarchico puro, generoso e intransigente, che molti consideravano un estremista nell’estremismo. Con lui avevamo progettato di fare una radio libera ma poi non siamo riusciti a metterla in piedi».