Il 1985 fu un anno di votazioni. In quell’anno si votò per rinnovare il consiglio comunale, quello regionale e l’assemblea provinciale. Non solo. Il 1985 fu anche anno di referendum. Il 9 e 10 giugno, infatti, ad un mese esatto dal voto per i tre enti, gli italiani furono richiamati alle urne per decidere se abrogare o meno un decreto voluto dal governo Craxi che mirava a contenere l’inflazione nell’anno 1984, congelava tre punti della cosiddetta “scala mobile”, quello strumento economico che adeguava automaticamente i salari dei lavoratori al costo della vita e, quindi, agli aumenti dei prezzi di alcune merci, per contrastare la diminuzione del potere d’acquisto a seguito di inflazione. Era stata introdotta in Italia, con un accordo tra Confederazione Generale dell’Industria Italiana e Cgil, nel ’45, quando l’inflazione era molto alta e il movimento operaio molto forte. Era stata introdotta non solo in Italia, ma anche in altri paesi europei, come Francia, Belgio, Danimarca e Olanda.
Tuttavia, negli ultimi anni Settanta, questo istituto diventò l’oggetto di un acceso scontro, destinato ad inasprirsi negli anni successivi, provocando profonde fratture anche tra i sindacati.
Il provvedimento voluto dal governo Craxi, varato il 14 febbraio 1984, al fine di rallentare un’inflazione favorita anche dalla “scala mobile”, puntava a rallentare questo adeguamento in cambio dell’introduzione di agevolazioni fiscali, del blocco dell’aumento dell’equo canone, del blocco delle tariffe pubbliche e del varo di norme più severe contro l’evasione fiscale. Già dall’insediamento, nell’83, il governo Craxi dovette fronteggiare un tasso di inflazione al 17%. Decise dunque di intervenire iniziando proprio dal costo del lavoro, tagliando tre punti di scala mobile
Un provvedimento che aveva visto l’assenso di parte delle associazioni di categoria degli imprenditori e alcuni dei sindacati, come Cisl e Uil, nell’idea che, riducendo l’inflazione, si sarebbe difeso il salario reale, come spiegò Pierre Carniti, segretario generale Cisl.
La Cgil, al cui interno era maggioritaria la componente comunista, si ritirò dalle trattative prima della definizione del decreto. Dando il via a manifestazioni e cortei di protesta. Il 24 marzo arrivarono a Roma una trentina di treni speciali, con centinaia di migliaia di manifestanti mobilitati dal Pci di Berlinguer, fortemente contrario al taglio dei tre punti della “scala mobile”. Un corteo lungo dieci chilometri, che partì da Cinecittà e che vide una grande partecipazione dalle diverse regioni italiane. Tanti lavoratori pronti a difendere il proprio salario dall’inflazione, come la Gianna decantata da Rino Gaetano nell’omonimo brano del ’78. Tanti lavoratori anche dalla Puglia e da Bitonto, come scrisse l’Unità il 25 marzo: «I disoccupati calabresi, gli operai forestali di Avellino, i cosentini, quelli di Nardò, quelli di Gravina, di Bitonto, di Toritto, di Casarano, ancora di Cerignola. Da Napoli e dalla Campania c’è poi come una valanga, un fiume interminabile di giovani, di ragazze, di lavoratori di ogni età che si sgolano, cantano, ballano, portano in trofeo burattini, fantocci, sagome semoventi».
Fu Democrazia Proletaria che iniziò a promuovere, attraverso una raccolta firme un referendum abrogativo. Una campagna referendaria che vide le forze di governo, coalizzate nel cosiddetto “pentapartito” (Dc, Psi, Psdi, Pli, Pri) e appoggiate dai sindacati Cisl e Uil, ma anche della componente socialista minoritaria della Cgil e da Confindustria, scontrarsi contro Pci, Democrazia Proletaria, Movimento Sociale Italiano, Partito Sardo d’Azione e componente comunista della Cgil.
Il fronte abrogazionista sembrava essere vincente. La gran parte degli operai erano contro il provvedimento proposto dal governo Craxi. E con loro tante altre categorie di lavoratori. Ma, contro le aspettative dell’epoca, a vincere fu il No, con il 54,32%, mentre i favorevoli all’abrogazione raggiunsero il 45,68%. Un segno che, da quel lontano 1945 i tempi erano profondamente cambiati. L’economia si era trasformata ed era in pieno svolgimento la ristrutturazione capitalistica degli anni Ottanta. Il movimento operaio era, inoltre, entrato in una crisi irreversibile e non era più la potenza del dopoguerra.
A Bitonto, tuttavia, il fronte del Sì fu maggioritario, ottenendo il 52,94%, mentre quello del No si arrestò al 47,06%. La partecipazione fu del 75,60% degli aventi diritto al voto (era già iniziata la curva discendente della partecipazione al voto, specialmente in occasione dei referendum).
In un articolo dal titolo “Non siamo da meno degli altri”, a firma di Domenico Pastoressa, il “da Bitonto”, nel numero di luglio del 1985, commentò il risultato del voto referendario.
«È stato un voto serio, intelligente, maturo quello 54,3% degli italiani, che hanno votato No al referendum del 9 e 10 giugno. Questo il giudizio dei politici, dei sindacalisti, della Confindustria, dei giornalisti che, col Craxi in testa, per il No si erano schierati» scrisse, riprendendo in chiave polemica le dichiarazioni rilasciate dai vincitori, piene, a suo dire di “tanta aggressività e arroganza”: «Un test, quindi, che bolla il 45,7% dei votanti come non serio, non intelligente, non maturo, almeno nelle cabine elettorali, perché ha detto Sì. Fra questi i bitontini non si sono mostrati da meno. Anzi, si sono rivelati non seri, ecc., non al 45,7%, e neanche al 49,9% (media dei Si al Sud), ma addirittura al 53%, avendo votato Si, appunto, al 53%»