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La Politica, ieri e oggi/La crisi della democrazia negli anni ’70 in una società che cambia

Per la Commissione Trilaterale, le tre aree dell'occidente industrializzato furono colpite da un "sovraccarico di democrazia"

Michele Cotugno by Michele Cotugno
31 Maggio 2020
in Politica
La Politica, ieri e oggi/La crisi della democrazia negli anni ’70 in una società che cambia
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Torniamo, ancora una volta, sulla crisi dei primi anni ’70, allontanandoci totalmente, però, almeno per oggi, dall’ambito locale, perché, come abbiamo già ribadito in altre occasioni, alle volte, per spiegare i grandi fenomeni politici, bisogna allontanarsi e allargare la visuale, come se si trattasse di un grande oggetto impossibile da vedere interamente, stando troppo vicino.

Scatenata dalla caduta degli accordi economici precedenti e dallo shock petrolifero, quella crisi non fu soltanto una crisi economica. Fu una crisi di sistema, una crisi sociale, globale, che coinvolse non solo l’Italia, ma tutto l’Occidente, segnando la fine della crescita che si era avuta nel trentennio precedente, il cosiddetto “Trentennio Glorioso”. Fu, in due parole, una “crisi della democrazia”.

Fu proprio questa l’espressione utilizzata dalla Commissione Trilaterale, gruppo di studio privato, non governativo e apartitico con sede a New York, nato nel 1973. «La Commissione Trilaterale è un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti delle tre aree del mondo industrializzato (America Settentrionale, Europa Occidentale, Giappone) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse» come recita il suo atto istitutivo. Ed è proprio per comprendere le cause e le conseguenze di quel che stava accadendo e arrivare a prospettare prospettive future, che furono incaricati tre studiosi, provenienti dalle tre aree menzionati: il francese Michel Crozier per l’Europa occidentale, lo statunitense Samuel P. Hungtington per l’America Settentrionale e il giapponese Joji Watanuki.

Il loro rapporto si intitola, appunto, “La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale”, presentato durante la riunione plenaria del 30 e del 31 maggio 1975, successivamente pubblicato come libro e tradotto in italiano nel ’77 dalla casa editrice Franco Angeli, con la prefazione di Giovanni Agnelli. È un’opera fondamentale per comprendere non solo quanto successe tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, ma anche perché i tre studiosi individuarono l’insorgere di fenomeni che stavano, all’epoca, nascendo e che avremmo visto con chiarezza solo negli anni futuri, anche in Italia, che visse, in quel periodo, un decennio travagliato e che vide svanire le illusioni di crescita continua del miracolo economico. Un’opera che si è prestata a più diverse chiavi di lettura, comprese alcune distorte, più complottiste. Aspetti che, in ogni caso, non ci interessano in questa sede.

Come scrive Agnelli, nella prefazione, «la sensazione diffusa di crisi del sistema occidentale, divenuta più forte dopo il 1973, con il peggiorare dei suoi aspetti economici strutturali, indusse la Commissione Trilaterale a tentarne un’interpretazione che, senza avere la pretesa di risolvere i difficili e delicati problemi, potesse almeno contribuire a capirne meglio le origini e l’evoluzione».

Lo studio individua diversi fattori che minavano la governabilità delle democrazie nelle tre aree e la loro capacità di gestire il forte dinamismo delle forze sociali. Per usare le parole dei tre studiosi, le democrazie occidentali non riuscivano più a garantire un “controllo sociale”, espressione che nonostante quel che sembra, non è necessariamente da intendersi in termini negativi, ma come capacità di governare la società, che, rispetto all’immediato dopoguerra, era profondamente cambiata.

In primo luogo, si sostiene, nell’opera dei tre studiosi, si verificò un sovraccarico della democrazia, una sproporzione tra le richieste dei cittadini e la capacità effettiva dei sistemi politici di soddisfarle. Gli anni ’50 e ’60 erano stati caratterizzati da una fortissima crescita economica che, di conseguenza, aveva portato un incremento del benessere economico per gran parte dei gruppi sociali che, a loro volta, avevano aumentato le proprie aspettative. Aspettative che, dopo la crisi degli anni ’70, la fine del Trentennio Glorioso e delle sue basi, con lo scoppio dell’inflazione e della stagnazione economica, i governi non erano più in grado di soddisfare. Un elemento che provocò, sempre più, sentimenti di sfiducia verso il sistema politico. Sotto questo punto di vista, potremmo dire che le democrazie occidentali diventano vittime del proprio successo. Entrano in crisi perché, dopo essere riuscite ad elevare la situazione economica dei propri cittadini, cadute le premesse positive, si trovano in una fase di impotenza. Una fase in cui, a diventare oggetto di contestazione sono lo stato e le sue istituzioni pubbliche, la sua burocrazia, viste sempre più come ostacolo al soddisfacimento delle richieste dei cittadini. Una fase in cui, in diversi paesi, dopo un periodo di benessere, vi tutto ciò si tradusse in difficoltà economiche. Ciò portò anche disordini urbani. Non solo il terrorismo come forma estrema di protesta e partecipazione politica, ma anche l’esplosione del crimine, della violenza. Fenomeno di cui la cinematografia ci fornisce numerosi esempi all’estero e in patria (basti pensare alla diffusione di film come “Il giustiziere della notte” o del poliziottesco italiano).

Non solo. Rispetto a quella uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, un quarto di secolo prima, la società era profondamente cambiata. Una larga fascia di popolazione era, rispetto a qualche decennio prima, molto più emancipata e si erano attenuate le rigide divisioni di classe. Le diverse componenti della popolazione non erano più separate come prima, grazie all’emancipazione, all’alfabetizzazione di massa, ai processi di urbanizzazione della società, ai nuovi mezzi di comunicazione, come la televisione, che riducono la distanza tra governanti e governati, tra le diverse fasce della popolazione. Tra i diversi strati della popolazione c’era più interdipendenza. Il maggior benessere e la maggior emancipazione avevano fatto in modo, poi, che cambiassero anche le istanze provenienti dagli individui. Si ebbe uno spostamento di valori. Dai valori materialistici, consci delle esigenze sociali di intere fasce della popolazione, si passò sempre più ad una maggiore attenzione, soprattutto tra i più giovani, a richieste più orientate alla soddisfazione dei bisogni individuali di realizzazione personale, affettiva, intellettuale ed estetica. In poche parole, si spianava la strada verso una politica sempre più orientata ai diritti civili, a scapito di quelli sociali, su cui avevano sempre fatto leva i partiti politici di massa. Cambiamenti di cui le proteste del ’68 erano state un’evidente manifestazione e che portarono i partiti politici e, in generale, tutti gli attori politici, in crisi, non riuscendo sempre, per tempo, ad adattarsi a cambiamenti sociali repentini. Le proteste interpretavano nuove esigenze nate dallo sviluppo e dalle trasformazioni della società e chiedevamo un ampliamento della democrazia. Del resto, in Italia, se ne era accorto, già qualche anno prima, il politologo Giorgio Galli, che riferendosi al sistema bipartitico imperfetto italiano, parlò di “lentocrazia”, incapace di cogliere i rapidi sviluppi della società in atto. Un sistema istituzionale debole, sempre più preda di poteri più occulti.

I partiti politici entrarono in crisi. Non solo quelli di governo. Anche quelli di opposizione. Anche gli stessi partiti comunisti occidentali (ma non mancarono contestazioni anche nei paesi del blocco socialista), all’opposizione, non furono esenti da contestazioni, da difficoltà a gestire una società che muta velocemente. E si trovarono, dunque, ad affrontare una crisi di legittimità che li portò a veder ridurre, al proprio interno, la partecipazione e la fedeltà del proprio elettorato. Gli esponenti politici, delegittimato il partito e timorosi di perdere ii consensi, iniziarono a ricorrere, anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, ad una politica che faceva più leva sulle proprie capacità, sulla capacità del leader carismatico di superare l’ostacolo della burocrazia pubblica per soddisfare le richieste dei cittadini. Un elemento che portava, tuttavia, anche all’adozione di scelte politiche irresponsabili.

Da questo punto di vista, potremmo dire che anche i partiti politici, che avevano contribuito al maggiore coinvolgimento di masse sempre più grandi e alla loro sempre maggiore emancipazione, diventarono preda del loro successo. Entrarono in crisi proprio perché ebbero successo.

Insieme ai partiti politici, anche le altre istituzioni entrano in crisi. Tra tutte, le più colpite furono le istituzioni religiose, in primis la Chiesa Cattolica, vittima di una sempre maggiore secolarizzazione della società, che vide allontanarsi sempre più i fedeli, specialmente quelli più giovani. Ma non solo. Anche altre istituzioni entrarono in crisi di legittimità. Come i grandi gruppi industriali e l’esercito, che vedrà, in molti stati, negli anni successivi, l’abolizione della leva obbligatoria. Istituzioni che, secondo Crozier, Hungtington e Watanuki, avevano contribuito al controllo sociale. La loro delegittimazione fu uno dei fattori di ingovernabilità della società, da parte delle forze politiche.

Altro fattore che portò al venir meno della coesione, all’interno della società, per i tre studiosi, fu la distensione dei rapporti tra Ovest ed Est, che ridimensionò quel fattore unificante che era fornito dal rischio per il nemico esterno, l’Unione sovietica, nel caso delle tre aree della Trilaterale.

Tutto ciò, come vedremo nei prossimi appuntamenti, portò diversi mutamenti nella politica, nella società, nelle modalità di partecipazione politica da parte dei cittadini.

Ci fu, in primo luogo, la crescita di modalità diverse di partecipazione politica. La mancanza di fiducia verso i partiti tradizionali portò alla nascita di diversi piccoli partiti, anche a sinistra del Partito Comunista. Cominciarono a sorgere movimenti che non perseguivano più una visione universale della società, ma che si concentravano su singole tematiche. Fiorirono movimenti che concentravano la propria battaglia politica su femminismo, ambientalismo, tematiche lgbt. Oppure movimenti territoriali, regionali, che si concentravano su questioni riguardanti il territorio di appartenenza, in contrapposizione allo stato centrale. Iniziò la crescita, da parte dell’elettorato più disilluso, del fenomeno dell’astensionismo. Una situazione, quella descritta, in cui cause ed effetti non sono ben circoscrivibili, ma che sono tra loro interdipendenti.

Tornando a quanto enunciato dai tre studiosi, nel rapporto si denunciò pure l’aumento dei consensi per movimenti estremisti, specialmente a sinistra. Pericolo, questo, per le democrazie occidentali.

Il rapporto della Trilaterale e le teorie esposte all’interno sono, ancora oggi, fondamentali per comprendere le politiche che, in molti stati, saranno adottate successivamente. Le istituzioni pubbliche, lo stato sociale iniziarono, dagli anni ’70, ad essere tacciati, sempre più di paralizzare le possibilità espansive dell’economia. Lo stesso keynesismo (idea per cui il libero mercato, da solo, non riesce sempre a mantenere alta la domanda di beni e quando questo non avviene, si verificano crisi, evitabili con interventi dello Stato volti a sostenere la domanda) fu accusato di aver drogato l’economia, provocando un’espansione dello stato sociale che aveva portato al sovraccarico di richieste da parte dei cittadini. Per questo, sarebbe stato sottrarre, secondo un’ideologia liberista che si fece sempre più largo nell’opinione pubblica, gran parte del potere decisionale alla politica, per cederlo alla competenza tecnica di mercato e banche centrali, in modo da uscire da questa paralisi.

Tra le istituzioni pubbliche accusate di frenare la crescita, secondo questa corrente di pensiero, ci furono i parlamenti e, di conseguenza, i partiti, che iniziarono nuovamente ad essere preda di attacchi sistematici, secondo una corrente di pensiero antipolitica e antipartitica di matrice liberista che è sempre esistita. Un’ideologia neoliberista, che, facendo leva anche sui crescenti fenomeni di corruzione all’interno dei partiti (conseguenza diretta del loro indebolimento), individuava come sostituzione l’affidamento alle forze sane del mercato, che possono liberare la cosa pubblica dagli impedimenti derivanti da inefficienza e veti di tipo corporativo da parte dei partiti.

Ovviamente tutto ciò si legò ad un’altra corrente di pensiero che cominciò a farsi largo prepotentemente: il graduare ritorno al restauro del primato dell’esecutivo, visto come rimedio alla lentezza delle assemblee parlamentari a guida partitica.

Correnti di pensiero che troveranno la loro espressione negli Stati Uniti di Reagan, nella Gran Bretagna di Thatcher, in Europa e, ovviamente, anche in Italia.

 

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